sabato 20 dicembre 2014

Consigli per non rovinare il Natale ad un Lettore





















Lo scorso Dicembre ho stilato una lista di romanzi che avreste potuto regalare o farvi regalare (celando in ogni pertugio delle dimore di potenziali benefattori bigliettini con titoli scarabocchiati a penna rossa, in stampatello). In molti condividiamo il dramma della sindrome del lettore sotto le feste. I sintomi sono: ansia, possibili eruzioni cutanee, sudorazione eccessiva, scatti d'ira e depressione post scartamento. La nostra condizione di lettori ci condanna a ricevere qualsiasi cosa abbia una forma quadrata o rettangolare, con dentro pagine e inchiostro. Purtroppo nella categoria rientrano fin troppi libri e, ahimè, nessuno dei vostri desiderata finirà tra le vostre mani a meno di un'esplicita richiesta. Il motivo è inspiegabile ma ciò non smentisce il teorema. L'unica soluzione è immettere nella vulgata delle vostre cerchie i romanzi davvero belli, e non solo Veronika decide di morire, che non è nemmeno di buon auspicio, per altro. Condividiamo allora le irresistibili liste di Natale. Chi non le ama? Possiedo un taccuino solo per stilare liste. Cose che non farò mai, viaggi che non farò mai, vestiti che non indosserò mai e soprattutto libri che mi aspetto di ricevere a Natale, questa volta però non è detto che il messaggio non arrivi a destinazione.
Quali sono le vostre wishlist natalizie? Condividetele sui vostri social network, in modo che finalmente abbiano (forse) una reale utilità e non solo quella di farsi rimorchiare dai cinquantenni con famiglia.
Buone feste, cari e grazie del supporto che ormai mi date da più di anno (sic!).

Qui trovate il post dell'anno scorso (nel caso vogliate più titoli tra cui scegliere) qui e qui invece trovate le mie wishlist anobi e pinterest (il sito in cui il tempo è immobile e da cui, una volta entrati, è quasi impossibile riemergere).


venerdì 24 ottobre 2014

Come finisce il libro? E i lettori?


Come finisce il libro? Questo è la questione del saggio di Alessandro Gazoia, noto già ai lettori del web con il nome di jumpinshark, edito da minimum fax  quest'anno. Ottime riflessioni sull'editoria trendy e sulla retorica trionfalistica con la quale accogliamo inconsapevolmente pericolosi monopoli come Amazon. La disamina coinvolge temi che animano da tempo il mondo dell'editoria come l'autopubblicazione, la pirateria digitale e il dibattito culturale sul web. La scrittura di Gazoia riesce ad essere acuta e pungente, senza mai cedere allo snobismo provocatorio o all'antipatica compiacenza delle elite culturali ma, anzi, muovendosi disinvolto tra i campi della cultura pop. In linea con un approccio concreto e vivace, l'autore decide di fare appello costante al lettore. L'interrogatio, oltre a rendere la lettura più partecipativa, sottolinea l'importanza e l'unicità del ruolo del lettore nel mondo editoriale oggi. Non la scambiate per una ruffianeria. La lettura è in nuce un atto che ormai assume pratiche diverse e uniche per ogni soggetto. Tutte da valutare ed interpretare. "Come finisce un libro" lo raccomando per un consumo consapevole della literary fiction, soprattutto a chi si sente soffocato da promozioni commerciali e opzioni di acquisto volte al Cliente e non al Lettore. Consiglio anche un altro saggio complementare (oltre a quelli già citati nelle note del libro): "Rete padrona - Amazon, Apple, Google & co. 
Il volto oscuro della rivoluzione digitale" di Federico Rampini, edito da Feltrinelli (2014).  

La lettura di questo libriccino è avvenuta a ridosso dell'uscita di questo video in cui espongo il mio parere sulla rincorsa del successo facile da parte di editori poco lungimiranti. Ma parlo anche, come fa Gazoia, del cambiamento nella fruizione dei prodotti culturali (dovuto in parte allo sviluppo di sempre più accessibili interfacce) e sul destino dell'entertainment. 



Sotto il video si è sviluppato un interessante confronto di idee che vi invito a leggere, almeno per farvi un'idea più chiara riguardo la mia opinione, che in video spesso è intrecciata alla mia verve, per alcuni troppo infuocata. Un commento tra i molti, ho giudicato particolarmente fertile. 

Enrica:
"Il punto è che la sempre crescente immediatezza dei mezzi di comunicazione non viene sfruttata nel modo giusto. Se invece di utilizzarla per bombardare i lettori (o come giustamente dici, i consumatori) con informazioni e promozioni, venisse usata per creare momenti di condivisione, di confronto, di scambi di idee, la lettura sarebbe maggiormente interpretata come un'esperienza e un'esperienza si individuale, ma anche collettiva. Non è un caso che la gente ti scriva che guardando i tuoi video ha riscoperto l'amore per la lettura! proprio perché si crea quel momento di aggregazione e anche di crescita che la "letteratura di consumo" (come ignobilmente la si definisce) non potrà mai dare. Alla fine di cosa di tratta? Semplicemente di scegliere tra un beneficio di brevissimo termine e uno che potrebbe produrre i suoi effetti anche per il resto della vita. Solo che spesso le persone non sanno proprio che ciò che cercano e di cui hanno bisogno esiste già. In questo senso apprezzo che molte librerie si stiano evolvendo in café letterari: perché se anche la motivazione di fondo è economica, non è in contrasto con una visione strategica ( e quindi di lungo periodo) del modo di concepire la letteratura, come appunto momento di condivisione tra persone accomunate dalla stessa passione, prima che razionali consumatori".

A proposito dei café letterari, ultimamente mi ritrovo a frequentare sempre più spesso una libreria, la Gogol&Co a Milano, dove per altro ho acquistato il libro di Gazoia. Io mi reco lì per studiare, ma tra una pausa e l'altra ne approfitto per leggiucchiare e per origliare i discorsi del librario con fornitori e altri personaggi. Vi giuro che è vero! Ogni giorno che mi sono recata lì, l'ho sentito discutere animatamente di editoria, di librerie indipendenti e di come si possa sopravvivere in questo mondo di squali, facendo un lavoro corretto e soddisfacente dal punto di vista umano e culturale. Io ero appollaiata al piano di sopra e pensavo: "Allora si può fare!". 


(Qui trovate una mia incursione nella libreria milanese, insieme ad altri posti dedicati alla lettura che ho esplorato) 


Credo fermamente nel fatto che le persone siano disposte a spendere per la letteratura tanto quanto sia il valore ad essa riconosciuto. Se attribuiamo al libro un prezzo al ribasso - come qualsiasi altra merce - nessun lettore vorrà spendere più di quel valore fissato (magari da un bollino, a 9,90 euro). Se escludiamo dall'equazione la variabile artistica e umana, qualsiasi libro costerà sempre troppo ed è così che abbiamo iniziato a perdere i lettori. 

giovedì 18 settembre 2014

Milano, i libri, le valigie e il tram

Mi è capitato di rileggere dei post che ho scritto negli ultimi settant'anni, evidentemente sotto una cattiva stella. Si aprivano tutti con una domanda retorica. Un'orrenda, inelegante e inadeguata domanda retorica. Indi per cui farò uno sforzo sovrumano e cercherò di NON iniziare con tale sgradevolezza. Andiamo dritto al punto. Ho cambiato città. Mi sono immessa anch'io nella genia degli studenti fuori sede. Un'altra meridionale a Milano.



Saltiamo la riflessione socio-economica-storica-psicologica da servizio di Studio Aperto, e passiamo alle cose allegre. Ancora le lezioni non sono iniziate. Sono libera di scorrazzare per la città, perdermi, prendere i tram sbagliati, mangiare in posti troppo costosi per le mie tasche, camminare fino a farmi venire il mal di schiena e le vesciche ai piedi.

 Da una settimana faccio la turista. Solo che al posto delle calamite per il frigo, compro quaderni, in vista della mia entrata trionfale all'università. No, davvero, ho una malattia grave. Ne ho comprati sette in cinque giorni. Non dovete farmi visitare il reparto cartoleria, divento indomabile. Siete mai entrati in posti come Muji o Tiger? Ecco, allora potete capire. Seguono a mena dito l'antica arte dell'ipnotismo per sedurti, convincerti di avere un disperato bisogno di oggetti inutili e leziosi, spremerti come un limone e abbandonarti poi sul ciglio della strada come il più miserevole dei clochard, provvisto altresì di un portabanane e otto chili di incenso.



Il paradosso è che ho la netta sensazione che tra poco conoscerò meglio Milano che la mia città natale. Mi ha fatto riflettere il commento di una ragazza alla mie peregrinazioni: "Io vivo a Milano da un po' e pare che tu in una giornata abbia visitato più posti di me in quattro anni". La verità è che ho sempre sentito parlare di Milano, è uno di quei poli d'attrazione che non puoi fare a meno di subire, almeno per me è stato così. E ora che ci sto, mi sento come risucchiata. Ne voglio assaggiare ogni pezzetto. Ho tutta la foga di una turista che ha a disposizione solo una settimana per godersi una città. Ho lasciato a casa la pigrizia (qui sto usando un'iperbole, signori) e mi è rimasta solo tanta voglia di esplorare.

MOMENTO INTELLETTUALE Sto girando tantissimi musei, li scelgo attraverso un semplice criterio: devono essere gratuiti. Almeno, all'inizio cercherò di trattenermi perché potete comprendere il fatto che mi sono appena trasferita e devo ammortizzare certe spese. No, non ho un lavoro, ahimè. Mi ha sorpreso notare che in effetti la scelta non manca. Il Museo del Novecento (personalmente non mi ha elettrizzato) e le splendide Gallerie d'Italia, ad esempio. Le riduzioni di prezzo sono comunque onnipresenti. Le mie prossime tappe sono: il museo Poldi Pezzoli e il museo di scienze naturali. La meta più ambita rimane la Pinacoteca, che però attendo di visitare la prima Domenica di Ottobre. Se non lo sapeste già, vi ricordo che in quella data, tutti i musei sono aperti gratuitamente al pubblico. Milano comunque non manca di esempi di magnifica arte anche en plein air. A parte la monumentale architettura, ci sono tantissimi artisti di strada (specie Corso Vittorio Emanuele).
FINE MOMENTO INTELLETTUALE
Allego speciali foto della mia esperienza al museo, coronata dalla sirena assordante dell'allarme fatto scattare da me medesima accidentalmente, cercando di aprire una porta che avrebbe dovuto portarmi alla toilette ma che evidentemente conteneva le sacre reliquie di qualche nobile briccone.





Il lato più curioso della vicenda è che ho modo di privilegiare un aspetto delle esplorazioni in città aliene che spesso viene del tutto trascurato, appunto per mancanza di tempo. I libri. Ho sempre pensato che uno dei tanti modi di giudicare una città fosse legato al rapporto di quest'ultima con la lettura, i librai, le biblioteche, i lettori e persino i non-lettori. è difficile che Milano non riesca a soddisfare le esigenze di un lettore onnivoro. C'è tutto ciò che avete sempre sognato. Le librerie sono tantissime, da quelle più grandi (come la Hoepli, vicinissima al centro che offre anche tantissime letture in lingua) a quelle più piccine; dalle grandi catene alle librerie indipendenti, librerie tematiche (la libreria del mare e della montagna!), diversi punti vendita Libraccio, e non dimentichiamo le bancarelle di libri usati per le strade.
Adelphi al 40% in Piazza Fontana
La trovate a Cairoli, è adorabile




















Solo da una settimana sono arrivata e già ne ho girate parecchie. Dei piccoli eden per noi lettori. Potevo non approfittarne? Sì, a Milano da pochi giorni e ho già comprato un libro. Qualcosa mi dice che costruirò casa mia, usandoli come mattoni.


Come ci insegnano i peripatetici, passeggiare è ottimo per riflettere e partorire idee. A me ne è venuta in mente una semplice. E se vi portassi con me? Visitiamo insieme Milano, piena di angolini nascosti e paradisiache oasi per noi lettori. Suggerimenti? Consigli? Ricordate che sono solo una principiante, guidatemi voi. Una volta raccolto il materiale, filmerò tutti i miei viaggi in questa città di carta e spero di superare la mia goffaggine e il mio imbarazzo tecnologico per montare un video con i fiocchi. Spero che l'idea vi entusiasmi. Io m'impegnerò a filmare tutto decentemente. Vi assicuro che riprendere in pubblico è più imbarazzante di quanto crediate. Ma ho l'alibi della turista, sicché.
Vi risparmio i dettagli sul vero e unico tour che sto facendo: quello culinario. Pensate che sono riuscita a mangiare persino pane e panelle (quelle buone, quelle vere!)quassù. Chi l'ha detto che si mangia male? Forse i milanesi. Ma fin ora io di milanesi non ne ho visti, secondo me non esistono. Milano, New York d'Italia?
Antica Focacceria San Francesco, Via San Paolo

domenica 22 giugno 2014

Considerazioni (lunghe e noiose) su La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro


Il futuro si è deteriorato, sembra che non ci attenda niente di buono, su questo sono tutti d'accordo, quando ero piccolo non era così: il futuro aveva qualche problema ma complessivamente era radioso, lucente, interplanetario, interstellare, intergalattico, trans-spazio-temporale.

Per Ivo Brandani, un soggetto residuale fuori dal ciclo riproduttivo (un vecchio ingegnere di sessantanove anni), le uniche dimensioni temporali possibili sono il passato e il presente. 
L’intero romanzo è giocato sull’alternanza tra questi due tempi narrativi. L’arco di una giornata - il ventinove Maggio 2015 - è lo spazio riservato alla disamina di una nauseante contemporaneità. I capitoli sono scanditi dall’orologio: dalle 9:07 A.M a 7.47 P.M. Un’interminabile giornata trascorsa con la debordante contrarietà del protagonista. Ivo attende all’aeroporto di Sharm-el-Sheik il volo di ritorno a casa. Si trova in Egitto per ricostruire con materiali sintetici la barriera corallina. In questo speciale limbo, l’unica dinamicità è offerta dalle sue associazioni mentali - echi di Proust e di Celine - che generano un torrenziale monologo, un feroce attacco al presente.

Il presente che descrive Pecoraro è in realtà un futuro prossimo, appena ad un anno di distanza dal nostro. Un anno che nel secolo accelerato in cui viviamo può anche significarne dieci. I riferimenti a questa realtà sono assoluti: le città sono indicate come Citta di Dio (Roma) o Città di Mare. Con le maiuscole anche i luoghi del potere, freddi, distanti: il Governatorato, l'Amministrazione, i Distretti. I luoghi decisionali sono lontani dall'individuo, vuoti. Tale descrizione di una burocrazia spersonalizzante ricorda Saramago (il Centro nel romanzo La Caverna, in particolare). E non è in ogni caso per niente lontana dal senso di smarrimento, solitudine e inerzia che appartiene al nostro tempo.  

Il fiume straboccante di parole contro la contemporaneità non è solo il risultato dell’IMS (Irritable male syndrome anche conosciuto come il ronzante rosicamento dei vecchiardi, a cui tutti noi siamo abituati). Ma è una disamina acutissima della realtà coeva. Il quadro è fosco. 
Un presente fasullo, vuoto e privo di bellezza. Il pianeta è ormai per metà in decomposizione e per metà plastificato, popolato da non-morti continuamente rigenerati dalle sostanze chimiche, risollevati dalla chirurgia, sempre più lucidi, artificiali. La vita ancora più lunga, quasi eterna, dove tutto è una copia di una copia di una copia. Persino il cibo è assemblato artificialmente. Un fake planet, devitalizzato ma in cui è quasi impossibile morire. Anzi, si direbbe che morire sia faccenda d’altri tempi.  
Stiamo lentamente transitando dal naturale al post-naturale, una surrealtà dove tutto è immagine di un originale scomparso. 
E Ivo - con il Rifacimento dei fondali marini in sintetico - contribuisce alla ricostruzione di un mondo fantoccio, alterato, imitazione di una realtà ormai perduta. Il tema della distruzione e della ri-costruzione si intrecciano: Ivo fabbrica un mondo nuovo mentre porta alla rovina quello vecchio, assume il doppio ruolo di homo faber e homo destruens. 
La sua carriera di ingegnere strutturista infatti non l'ha portato a progettare proprio un bel niente. Che contribuisca al disastro, allora. 

Io sto al gioco, mi piace l'Apocalisse, mi ci trovo bene, ci godo...

I toni apocalittici con cui viene descritta la contemporaneità sanciscono il collasso del mondo in cui è cresciuto. L’ingegnere si trova in una realtà dal volto irriconoscibile, da cui si sente già scollato, lui e la sua mentalità novecentesca. Vorrebbe passare gli ultimi stralci di tempo a sua disposizione assistendo ad un grandioso disastro - qualcosa di veramente emozionante, finalmente - è ossessionato dal senso della catastrofe. Non si inverte la freccia del tempo , gli direi a questi qui dietro il banco. Tutto deve andare a male, marcire, degradarsi, rovinarsi, fottersi definitivamente. Ma non ci sarà nessuna esplosione, solo un lento deteriorarsi che cambierà il volto del mondo. E Ivo si si sente già prossimo alla fine. Come i soldati che muoiono l’ultimo giorno di guerra, come a quei bambini che presero la poliomielite quando il vaccino era già in distribuzione. Sulla soglia di una nuova era. 

A queste amare invettive, si alternano capitoli dedicati alle reminiscenze del suo passato. Sgorgano dalla mente di Ivo ricordi a ritroso, da quelli più recenti all’infanzia, fino ad un finale fuori dal tempo. Dunque mentre la giornata del ventinove Maggio procede in senso orario - dalla mattina alla sera - il passato di Ivo si ripropone in senso antiorario, dalla vecchiaia alla sua nascita. La narrazione procede perfettamente  su questi due binari temporali, alternando questi due ritmi. La struttura del romanzo fa sì che la fine di Ivo - sappiamo dal primo capitolo cosa lo ucciderà - coincida con l’inizio della sua vita. Un motivo circolare che si ripresenta costantemente: il viaggio di ritorno dall’Egitto, il ritorno con la mente alla casa d’infanzia, al nucleo familiare d’origine e soprattutto al padre, paradigma tirannico e irrefutabile. 
Se inoltre il 2015 aveva caratteristiche vaghe, un contesto futuristico, il passato di Ivo al contrario ripercorre la Storia d'Italia. Un contesto a noi familiare, che viene però riletto con una nuova chiave da Pecoraro.
Queste immersioni nel passato - alcune rappresentano dei perfetti racconti autoconclusivi - danno una giustificazione al cinismo dell’attuale Brandani. Il suo vissuto è segnato dall’inadeguatezza e dai fallimenti. La vita lo ha attraversato, e lui l’ha subita. 

EFFETTO CORIOLIS: ogni traiettoria subisce una curvatura, talvolta fino ad avvitarsi su se stessa...Non sei mai dove avresti voluto essere, non arrivi mai nel punto dove hai messo la prua, ma sempre da qualche altra parte e ti dice bene se riesci a finire nei pressi del tuo obiettivo...Io, ammesso che avessi un obiettivo, non solo l'ho mancato in pieno, ma da qui nemmeno lo vedo più

La vita di Ivo scorre in tempo di Pace ma in realtà è un susseguirsi di conflitti meschini da cui uscirà sempre sconfitto. 
Il conflitto Originario è quello con il Padre, figura ostile e fascista, fedele a due unici Valori: Coraggio e Orgoglio. Due qualità che sfortunatamente Ivo sembra non avere. Padre costruisce per lui un mondo non-alla sua altezza, di fatto castrandolo e rendendolo un inadeguato-a-vita. Ivo così chiuso nel suo invernale voler restar dentro è spinto a forza fuori. Un fuori barbarico e primitivo: il mondo dei ragazzini, in cui si riproducono le dinamiche sociali della prevaricazione e della violenza. Ivo è persino una pippa a giocare a calcio, qualità invalidante. Nonostante il dopoguerra, il boom economico e l’ottimismo degli anni Cinquanta, il microcosmo della Città di Dio nasconde una realtà vile e brutale.  La lotta sociale è spietata, l’unico modo per galleggiare è menare. Farsi riconoscere come uno che mena garantisce lo status di dominante
La giovinezza di Ivo squarcia subito qualsiasi illusione. Il grande Male della Pace è la lotta per emergere, per imporsi sugli altri. Un conflitto eterno. Il Tempo di pace è la lotta di tutti contro tutti, la violenza è del tutto privata, egoistica. Non c’è una guerra - e quindi una violenza imposta, obbligata - che ti costringa a definirti secondo valori civili condivisi come quelli di Patria o che ti spinga a fare i conti con la sopravvivenza, con la parte più intima di te stesso. L’alternativa vertiginosa tra vita o morte non esiste nel tempo di Pace. La Pace ti cuoce lentamente ti culla con antidepressivi, ansiolitici e ti confonde, ti istupidisce, ti isola. 
In questo caos in cui Ivo fatica ad imporre la sua individualità (se lo ripete sempre:Brandani tu non sei un combattente, non sei un competitore…) il protagonista cerca un ordine alternativo alla crudeltà del comandamento homo homini lupus. Tenta con la rigidità del Pensiero: si iscrive alla facoltà di Filosofia. è coinvolto nelle lotte del 68’ e gli basta poco per capire che qualsiasi gruppo -persino quelli che propugnano idee di uguaglianza e di fraternità - nascondono la stessa ossatura, naturale negli uomini,  gli stessi meccanismi di dominanza e sottomissione, lo stesso gregarismo. 
E d’altronde Ivo capisce di essere inadatto alla lotta politica, qualsiasi scenario di battaglia lo atterrisce. 
Sono un non-eroe, un non-coraggioso, un non-dominante, uno che non ci crede, che non crede a niente, che non ha mai creduto a niente…sono uno-che-molla, uno che per lui niente conta, se non restare in vita nelle migliori condizioni possibili    
Durante un viaggio in Inghilterra, si trova davanti al Firth of Fourt Bridge. Ha un’illuminazione. 
Se la Natura lo ha tradito, se è inadatto a qualsiasi contesto di selezione naturale - e quindi inevitabilmente di prevaricazione fascista e violenta - allora, la Scienza, la costruzione, possono essere usate contro la Natura. La filosofia non aveva portato ordine, non aveva dato un Senso ma soprattutto non aveva dato un risultato visibile. La Scienza, al contrario, opponendosi ai diktat naturali permette di unire ciò che è separato, può creare dei ponti.
A seguito dell’epifania, abbandona la facoltà di Filosofia (ma non gli Ideali di sinistra, per quello c’è tempo) e si iscrive ad Ingegneria. Finalmente, eliminata la variabile umana, Brandani ha un mestiere. 
Il mondo del lavoro si rivelerà ancora più mortificante di quello adolescenziale e universitario. Non ci si fa la guerra né con le bombe né con i cazzotti come nel quartiere, ma con mezzi assai più subdoli. Il suo capo De Klerk è un manager di successo, aderisce al mondo così com’è e non come dovrebbe essere, al contario di Ivo ancora ancorato alla chimera dell'idealità. Questo capitolo è un piccolo capolavoro di narrativa: Pecoraro fornisce attraverso il racconto di un viaggio in barca una perfetta allegoria della fortissima pressione che esercita il capitalismo su di noi. De Klerk è tutto ciò che Ivo odia: maschilista, predatore, tirannico, un dominante. Brandani coltiva infatti nei confronti della mentalità borghese e materialista - tutto ciò che De Klerk rappresenta - un retro pensiero infantile: non mi avrete mai. Eppure De Klerk è più forte di lui, il suo modello prima lo affascina, poi lo avvince e infine lo schiaccia. Ivo non può niente. 
Di fatto ti collocasti nella grande Catena dei Sì. (...)Ti consegnerai nelle mani del capitale, sarai un ingranaggio del profitto. 
La sua blanda riserva mentale - “non mi avrete mai” - è una vana resistenza. Tutto è dentro la logica di mercato, senza scampo. Sembra di leggere le pagine profetiche di Cosmopolis (di Don DeLillo): “non esiste niente fuori dal mercato”.
La Grande Classe Media Uniforme dell'Occidente Democratico, quella che ha divorato e inglobato in sé tutte le altre classi, compresa quella operaia, dedita alla ragione passiva. I nativi del capitalismo mediatico non conoscono la nozione di opposizione, di alternativa.

Ha ragione Cortellessa quando parla di Pecoraro come scrittore di guerra. La guerra dei “sessant’anni di pace, nei tanti inferni del fare umano”. è questa la grande forza del romanzo: la sua potenza demistificatrice, il pessimismo lucido, la coscienza della complicità e della colpa. Ma anche la rassegnazione al caos dell'esistenza, alla non forma delle cose. Come pretendiamo che ci sia ordine se viviamo, anzi, siamo ciò che resta di un'esplosione? 

Il delirio lucido di Brandani sgorga fuori con aggressività, una lingua corrosiva, senza tabù. Seguendo gli stilemi del modernismo, Pecoraro redige un romanzo verboso -  come gli anziani Brandani è puntiglioso, si ripete senza sensi di colpa - contaminato da nozioni scientifiche, architettoniche, storiche, biologiche.  Il suo è un epos rovesciato, senza eroismi né imprese. Può darsi che La vita in tempo di pace sia la perfetta anti-epica, l’uomo senza qualità del nostro Tempo. 
Indubbio è che questo romanzo per gli scrittori italiani rappresenti - già - una tappa obbligata. 


Niente tornerà più, nessuna promessa è stata mantenuta: Dio non c'era, il mondo non ti stava aspettando, nessuno ti cercava, di là dal mare ci sono solo altri ristoranti di fritto misto e il mestiere, che prometteva, alla fine si è negato. O forse tu eri negato per farlo bene, Ivo...”.

sabato 24 maggio 2014

W la trance! - L'armata dei sonnambuli o lo leggete o sbrisga.

Con "L’armata dei sonnambuli" i Wu Ming hanno portato a compimento la pluridecennale riflessione sulla rivoluzione e il potere che da sempre ha contraddistinto i loro romanzi storici.
Il discorso si era aperto con Q, ambientato nella tempesta delle guerre di religione e della riforma protestante del Cinquecento, ed è proseguito con altri romanzi, tra cui Manituana in cui è narrata la guerra tra i rivoluzionari delle colonie americane e i lealisti inglesi, dal punto di vista dei nativi (e di cui troviamo un’eco proprio nell’Armata). 
L’ultimo romanzo invece abbraccia quella che per noi europei è forse il più romantico e terribile dei rovesciamenti storici: quello francese. Quando pensiamo alla rivoluzione, immaginiamo la testa di Luigi che cade per mano della ghigliottina. O a Lady Oscar. 
Come decidono di raccontarci questo sconvolgente spartiacque storico i Wu Ming? 

Come se fosse un’opera teatrale.

“I parigini erano sempre interessati al teatro, ma il teatro era divenuto grande quanto Parigi (…) Gli spettacoli più emozionanti erano quelli dove la gente perdeva la testa per davvero, i cannoni tuonavano e poteva capitare, da un momento all’altro, che gli spettatori si trovassero a recitare”.

La narrazione è divisa in cinque rocamboleschi atti. L’espediente drammatico è efficace soprattutto a mettere in luce il binomio politica-spettacolo che avvelena la nostra contemporaneità: 

“Questi politici si alzano sui banchi per i loro discorsi come un attore calcherebbe le scene. Per loro il popolo è un pubblico, nient’altro”.

Tuttavia i veri protagonisti della rivoluzione non sono i vari Robespierre, Marat, Desmoulins, Danton - i cui volti ci adocchiano dalle pagine dei libri del liceo - bensì personaggi che stanno all’ombra della storia.
Sul palcoscenico de “L’armata dei sonnambuli”  il popolo non è affatto uno spettatore. Leo Modonnet, attore bolognese dalla scarsa fortuna in Francia, decide di indossare la maschera di Scaramouche, diventando così un Batman ante litteram. L’Ammazzaincredibili - che parla per allitterazioni e assonanze come V da V per Vendetta - il vendicatore del popolo, metterà in scena delle maldestre aggressioni (il superomismo di stampo machista va sempre un tantino sbeffeggiato) a danno dei muschiattini, controrivoluzionari monarchici e reazionari, la cosiddetta gioventù termidoriana. 
Ma forse il cuore del romanzo, al di là degli aspetti scenografici, è un’altra popolana: Marie Nozier, orgogliosa sarta dal foborgo giacobino di S. Antonio, ferrea paladina della rivoluzione che si arruolerà persino con le amazzoni di Claire Lacomb. Marie non ha maschere a proteggerla, è una disgraziata eroina (e “una pessima madre”) a viso scoperto. Lotta rischiando di perdere tutto. Una combattente amareggiata, dai modi bruschi, dal carattere difficile. Ma pur sempre una formidabile guerriera.  
Centrale nel romanzo dei Wu ming è la ferocia e la potenza dei moti dal basso. In barba a chi ha rivalutato come rivoluzione borghese l’evento straordinario che fu quella marea che si sollevò nel 1789, i Wu ming rivendicano la forza della spinta popolare, le azioni di personaggi umili. Anche proprio laddove le aspettative del popolo sono state disilluse e frustrate. La rivoluzione francese in parte fu un fallimento. Ma se i Wu Ming non si astengono dal tratteggiare una rivoluzione fallita ( senza tralasciarne tutte le lacerazioni e i compromessi e le trappole in essa insiti), non rinunciano ad un concetto di lotta vivo, più vivo che mai. E L’armata dei sonnambuli è un romanzo che parla soprattutto di Resistenza contro il potere.

“Perché a rifletterci bene, Leo doveva ammettere che la sua era una partita privata. Non era la rivoluzione ad averlo deluso, come era capitato a tanti, ma la vita stessa (…) Chissà se esisteva un destino fissato negli astri. Chissà quale finale l’Essere Supremo aveva in serbo per lui. La coscienza gli diceva che non sarebbe stato nulla di buono, ma la testacea ribatteva che il colpo andava restituito e doveva essere all’altezza di quello subito. A buon gatto, buon ratto. Alla battuta dell’antagonista, il protagonista doveva rispondere riprendendosi la scena”. 

I Wu Ming, come sempre, sono abilissimi nell’estrarre dalla lezione del passato, nuove sfide per il presente. 
Ho immediatamente associato Marie ad un’altra donna combattente, protagonista del romanzo di un altro collettivo di scrittori, “In territorio nemico”: Adele, prima operaia e poi gappista negli anni della Resistenza. 
Due figure di donne che lottano, entrambe presenti in due romanzi contemporanei (recentissimi, tra l’altro) che reinterpretano il passato in chiave attuale. Un segnale importante che vede emergere una serpeggiante tensione rivoluzionaria in Italia. 
Il soggetto de “L’armata dei sonnambuli” è la rivoluzione francese ma potrebbe essere anche la Russia, l’Italia degli anni 70’, la lotta no tav. Qualsiasi scenario di sopraffazione che renda necessaria una risposta altrettanto forte, altrettanto decisa.  
Significativo il fatto che il popolo intervenga in prima persona, il soggetto collettivo s’inserisce nella narrazione come un coro greco, alternandosi alle gesta dei protagonisti. 

Ma non c’è solo il popolo vessato, anche la borghesia gode di rappresentanza. Una borghesia illuminata, dal volto ideale, che collabora con la collettività per una causa nobile e giusta. Il medico D’Amblanc, con il corpo (ma soprattutto la mente) tormentati da ferite di guerra, è un magnetista che si mette al servizio della Rivoluzione. Il suo compito è quello di stanare una potenziale fazione di magnetisti controrivoluzionari. I Wu Ming usano, per mettere in scena l’altra faccia della rivoluzione (quella reazionaria e monarchica) il mesmerismo, che ha agito dietro le quinte della rivoluzione. Una scelta coraggiosa che avvicina il romanzo al filone fantasy. 

Il magnetismo animale è infatti soggetto ad una duplice interpretazione: o come un vero e proprio incantesimo o in chiave razionale come una sorta di ipnotismo (e appunto i sonnambuli del titolo sono sprofondati in un sonno indotto). Il conflitto messo in scena è quello tra un mesmerismo democratico e razionale, che segue i principi dell’illuminismo e dell’etica (quello di D’Amblanc) e dall’altro lato un mesmerismo totalitario, usato per raggiungere scopi personali e che non tenga minimamente in considerazione la volontà dei sonnambulizzati, trattati alla stregua delle bestie (quello del misterioso villain del romanzo, dall’identità fittizia). 
Il magnetismo diventa quindi un’ottima metafora politica, una riflessione sempre attuale sugli abusi del potere e sulla libertà. Non è forse un caso che le vittime del magnetismo scellerato siano rappresentati nel romanzo per lo più da bambini, per sempre danneggiati e irrimediabilmente corrotti da una volontà fascista e brutale.  

L’indagine di D’Amblanc non avviene nella tempestosa Parigi - come invece le parallele azioni di Leo e Marie - ma nella provincia francese, attraverso paesaggi ostili e terrificanti. Queste sono forse le ambientazioni più cariche di fascinazione, che risentono di un’evidente influenza horror (che l'armata del titolo non sia forse "l'armata delle tenebre?) che insieme al filone magico (e abbiamo visto prima l’universo fumettistico dei supereroi) rendono il romanzo un’opera contaminata e stratificata, ricca di riferimenti alti e bassi, dalla cultura pop alla letteratura, alla documentazione storica. Tutto può entrare nella narrazione. E lo fa in maniera credibile. Il genere diventa uno spazio aperto, senza limiti. 
La lettura diventa così un processo attivo, un atto di partecipazione. Leggendo un romanzo dei Wu Ming siamo continuamente investiti da una sensazione di deja vu perché gli scrittori ci colpiscono con simboli (da loro rielaborati) del nostro immaginario, che ci invitano a riconoscere. Non è solo un gioco letterario, un carosello di citazioni. è un modo di concepire l’opera letteraria come “aperta”, dinamica, viva. 
Il tema della libertà e della democrazia dall’intreccio si estende e ingloba lo stesso concetto di romanzo. 
Si prenda ad esempio l’atto quinto. Il “come va a finire” potrebbe trarci in inganno. All’apparenza potrebbe sembrare un epilogo. Oppure un elenco di fonti. Si attiva un processo di straniamento nel lettore. Come è possibile che un “atto” dello spettacolo sia dedicato ad un barboso elenco di documenti? Eppure non è affatto così. L’atto quinto rappresenta un “oggetto narrativo non identificato”. Un’ibridazione (l’ennesima) della narrazione, al di fuori di essa ma allo stesso tempo parte di essa. I personaggi sono sottoposti ad esame. Quali tra le informazioni che ci danno gli scrittori sono vere e quali false? L’atto quinto preannuncia un atto sesto. Un atto che dovrà essere scritto dal lettore. L’armata dei sonnambuli non finisce, le sorti dei personaggi sono lasciate nelle mani di chi le vorrà reinterpretare. La Storia e le storie non muoiono mai, fin quando ci sarà qualcuno pronto a farle rivivere. 



Il "vasto palcoscenico rivoluzionario della Francia" che hanno allestito i Wu Ming è formidabile. Francamente irresistibile il vortice di personaggi e situazioni che ti trascinano per pagine e pagine, senza requia. Si passa dal tragico al farsesco, dal turpiloquio popolare alle inclinazioni filosofiche degli scenziati magnetisti, dai comunicati ufficiali della Convenzione alle epistole familiari. Sanculotti, brissottini, girondini, controrivoluzionari, patriote repubblicane divise in brigate, amazzoni e pesciare che se le danno di santa ragione.
“L’armata dei sonnambuli” riesce ad essere popolare, leggero e accattivante e nello stesso tempo crepato, bombardato da interrogativi sulla storia e sulla vita. Esattamente come i suoi eroi. Sgangherati, disfatti, amareggiati. Eppure combattivi. A buon gatto, buon ratto o sbrisga.    


“La rivoluzione, diceva, è come quei mazzi di carte da gioco dove re, dame e cavalieri son divisi a metà, una diritta e l’altra rovesciata, testa insù e testa dabbasso, giri e rigiri la carta ma cambia un cazzo, il re che sta diritto è sempre insieme a quello capovolto, che è come se gli tirasse il ghignone, come se da sotto gli dicesse: “Io sono te che vai a finire male”! Goditela finché puoi, perché il mondo si arbalta” 



martedì 25 marzo 2014

Il pezzo mancante - I granchi dell'editoria #10

Articolo originale, uscito per Youbookers 

ilenia 001
Uno dei molti problemi di noi lettori della nuova era consumistica è la mania del possesso. Mi ritrovo giornalmente a discutere (anche contro me stessa) sul valore della biblioteca e del prestito – poi del girone infernale creato appositamente per coloro che non restituiscono i libri parleremo un'altra volta. Cerco in tutti i modi di convincermi che possedere un libro non è indice del suo valore. Uno dei libri che mi ha cambiato la vita è stato: “La fabbrica di cioccolato” di Roald Dahl, letto a sei anni in biblioteca. Mai avuto una copia. Eppure, dopo molti anni, ancora riesco a citarlo con disinvoltura in un pezzo che non c'entra assolutamente nulla. Finiamo sempre a parlare dei nostri libri preferiti, non importa su cosa verte la discussione.
Tuttavia non posso negare che esista nella mente di noi lettori un tarlo materialista e vorace che ci spinge a divorare tutti i nostri risparmi, comprando, comprando, comprando libri. Tantissimi.
L'effetto più evidente di questo circolo vizioso (formato da quattro tappe: accumuli risparmi-bruci i risparmi-accumuli libri – muori sotterrato dai libri) è la ricerca spasmodica dell'edizione più economica. Sì, perché tanti libri equivale a tanti soldi. E siccome tanti soldi non si hanno nell'era della condivisione di tutto tranne che dei suddetti, allora ci si arrangia. Questa rubrica che curo da qualche mese, fondamentalmente dovrebbe convincervi di una verità inoppugnabile: l'edizione è importante. È meglio spendere di più per un lavoro svolto come si deve che spendere meno per un lavoro trasandato. Una verità che le vostre mamme - rifiutandosi di comprarvi qualsiasi cinesata,  in attesa di un dolcevita di lana vera anziché i fuseaux di Barbie (che bramavo più di ogni altra cosa) - vi avrebbero dovuto inculcare da piccini, insieme al culto della canottiera sotto la camicia. E invece no. Invece siamo venuti su male. Noi disperati pronti a raccattare qualsiasi prezzo straccione, vi ricordate la discussione sui Newton a 0,99 centesimi? Se non ve lo ricordate andate qui. Ma prima dei Newton a #menodizero  c'erano loro: i libri dell'edicola. I classici di Repubblica-L'Espresso a un euro. Le collane del Corriere. I raccontini del Sole 24 Ore. “Ce l'ho tutti”. Come le figurine all'asilo.
S'innesca un meccanismo pericoloso che non mi sento né di condannare in toto né di celebrarlo come la vittoria dei poveri lettori contro il malvagio e ingordo sistema editoriale. Dove ci rimette uno ci rimettono entrambi. Molto spesso ad un prezzo miserevole, corrispondono traduzioni scimmiesche o decrepite, o peggio ancora: le edizioni incomplete, il mio personale supplizio. Dopo Tenera è la notte  (ed. Dalai) e I demoni (ed. Newton) si aggiunge un altro nome alla triste lista: “Il carteggio Aspern”, edizione facente parte della collana “La biblioteca di Repubblica”, a cui  manca il capitolo finale. La narrazione s'interrompe in maniera repentina e brutale. Il lettore è dapprima spiazzato, poi incredulo, poi imbufalito.
Capisco che costi un euro e non è che si può pretendere il lavoro editoriale di un team di filologi. Capisco che è l'era del precariato e ogni azienda si raccapezza come può - proprio Lunedì la Feltrinelli ha scambiato il contenuto del mio pacco ordinato online con quello di un omino con dei gusti tremendi in fatto di gialli incolpando dello sciagurato errore proprio la mancanza di personale - ma questa è un altra storia.
Davvero, mi mostro molto comprensiva. Tuttavia il fatto che manchi il finale può essere semplicemente o 1) il risultato di una sbronza epocale – avete presente il miglio d'oro ne la fine del mondo? 2) il ritorno dalla Costa Crociere. Tra l'altro i viaggi in crociera veri sono molto più mesti e ti lasciano addosso una vaga sensazione di appiccicaticcio, non di certo un'irresistibile voglia di tornarci.
Cosa ci rimane da fare, a questo punto? Esatto, amici. Spendere il doppio per procurarci un'altra edizione. Nell'elenco di libri da ricomprare per un mio personale (e sbagliato) spirito da collezionista ho già sette libri che avevo comprato in una pessima edizione. Sto adocchiando (fissando per ore in libreria in attesa che mi venga il coraggio/la malsana idea di buttare altri soldi dalla finestra, comprandoli) quest'edizione e quest'altra. Tutta colpa della taccagneria. E per le suddette cantonate ora sarò costretta a spendere il doppio. Un lavoro editoriale non è facilmente sostituibile. Ci rimettono tutti. Ma adesso il quesito più urgente è: a chi rifilerò quest'edizione immonda, questo moncherino fetido?

giovedì 23 gennaio 2014

Il vostro potenziale libro preferito è al macero. Che fare? - I granchi dell'editoria #9

ilenia 001Cosa succede quando scoprite che il libro che agognavate è fuori produzione? Escludiamo per un attimo le reazioni fumantine, l'adozione di un linguaggio colorito e lo sciopero della fame. Come fare per recuperare il tomo dei nostri desideri?
Quando appare la dicitura: “non più disponibile sul sito”, una parte di noi lettori già si dispera e si arrende, pensando che non ci sia modo di recuperare il suo potenziale libro preferito. Sì, sono un'ottimista. Fingete che nessun romanzo si riveli mai una delusione: il fantastico mondo dell'irreale e della possibilità non ci delude mai (Gatsby mi ha traviato in giovane età).
Alcuni lettori più navigati (o più ostinati) invece andranno in un luogo mistico che ricorda, neanche troppo vagamente, la stanza delle necessità in Harry Potter: il mercatino dei libri usati.
Le più varie tipologie di lettori si muovono in questo universo meraviglioso: molti si limitano a spulciare negli anfratti più bui per poi accontentarsi di classici in edizioni rilegate (io non ci sputerei) ma senza trovare il romanzo contemporaneo per cui erano arrivati speranzosi. Altri (i bibliotecari) si limitano a catalogare nella loro mente ogni singolo tomino (compresa la posizione del banchetto – stile battaglia navale - e un bozzetto del volto del venditore) in attesa di tempi migliori. Pochi conquistano addirittura il titolo di pirata (tutto quello che vogliono lo conquistano con la forza a prezzi stracciati).
E poi ci siamo noi. La categoria degli sfigati. Quelli che non hanno un mercatino di libri usati nella propria città. E che hanno tre opzioni: traslocare in una città migliore; mettere tra i preferiti il sito del Libraccio o supplicare la casa editrice colpevole del misfatto di ristampare il vostro potenziale libro preferito.
Lo scorso mese, tuttavia, si è profilata per la sottoscritta – che cercava come un segugio Amore e morte a Varanasi – un'altra opzione: la strada del digitale. Il libro che è andato fuori commercio, per i motivi più disparati, può rientrare nel circolo dell'amore letterario grazie all'opportunità che offre l'edizione digitale. L'ebook costa di meno, permette di recuperare un romanzo fuori produzione e potete averlo senza fare il giro del mondo in ottanta camicie di sudore, ma con un semplice click. I vantaggi del digitale ancora una volta tornano utili a noi lettori (che troppo spesso demonizziamo questo miracoloso mezzo). Se il vostro potenziale libro preferito non è ancora stato digitalizzato, potreste chiedere voi stessi alla casa editrice di farlo e sono sicura che la possibilità sarà vagliata (al contrario della ristampa, ipotesi remota sulla quale è meglio non sperare troppo).
Insomma chi ci rimette? Sicuramente non la foresta amazzonica.
Articolo originale qui

martedì 14 gennaio 2014

L'omonimo di Jhumpa Lahiri: prima delusione dell'anno

Quest’anno ho deciso di non fossilizzarmi sulla letteratura americana, tendenza di cui penso vi siate accorti tutti. Così ho deciso di ampliare i miei orizzonti, leggendo un romanzo di una scrittrice di origini bengalesi, nata a Londra ma cresciuta negli Stati Uniti: Jumpha Lahiri. Vincitrice del premio Pulitzer nel 2000 per la sua raccolta di racconti “L’interprete dei malanni”, è una delle autrici americane più apprezzate. Come dite? Ah, dovevo allontanarmi dallo scenario statunitense? Un passo alla volta, ragazzi. Un passo alla volta. 



Recentemente soprattutto in Italia si è parlato molto di Jhumpa. La scrittrice infatti si è trasferita a Roma nel 2012 (parla molto bene italiano, tra l’altro) ed è da poco uscito, edito da Guanda, il nuovo romanzo “La moglie”, che pare essere il suo miglior lavoro

Tuttavia, spinta dai riscontri più che positivi e sicurissima di dover recuperare tutta la produzione della scrittrice, ho deciso di iniziare dal suo primo romanzo: The namesake, che ho letto in lingua originale. In Italia “L’omonimo” è edito da Marcos y Marcos (se bazzicate i mercatini dell’usato e siete molto fortunati dovreste riuscire a trovare anche un’edizione Guanda, ormai fuori commercio). 




Credo che qualcuno più furbo di me, avrebbe iniziato dall’opera con cui ha vinto il Pulitzer. E avrebbe fatto bene. Se una scrittrice è acclamata per le sue short stories, perché leggere il suo primo romanzo? Già perché? L’omonimo per me è stata una lettura davvero deludente. 

Il romanzo è incentrato sulla lotta di una coppia bengalese che emigra negli Stati uniti e forma una famiglia in un ambiente per loro sconosciuto e in cui si sentono spesso fuori posto. Ashima e Ashoke, uniti da un matrimonio combinato, danno alla luce un figlio che per una serie di circostanze ed inconvenienti, viene chiamato Gogol, come lo scrittore ucraino. Per il padre infatti il nome di Gogol assume una valenza emotiva speciale, di cui però Gogol resta all’oscuro. Crescendo egli comincerà a sentire il peso di questo nome così bizzarro che non percepisce come proprio e che rappresenta anche il simbolo di un passato (quello di suo padre e quello dello scrittore) che egli non comprende e non accetta. Il conflitto attorno al nome diventa una ricerca della propria identità, del proprio scopo, della propria appartenenza. Come il romanzo della Selasi, L’omonimo - scritto nel 2003 - è un romanzo potenzialmente cosmopolita e ricco di tutti quei temi sull’incontro-scontro tra le varie culture nella società globalizzata e soprattutto negli Stati Uniti, melting pot di tradizioni. 
L’idea del romanzo (e badate bene, l’idea) ruota non solo attorno al conflitto tra il nome e l’identità, ma è anche il conflitto tra due culture, quella americana in cui Gogol si sente perfettamente a suo agio e quella indiana a cui sente di non appartenere ma che non può rinnegare, soprattutto per il senso del dovere che ha per i suoi genitori. 



La trama e il substrato del romanzo sono assolutamente promettenti e ambiziosi. Il problema però è che tutti questi temi sono sbiaditi. L’impressione viva che si ha durante la lettura è quella dell’attesa. Attesa di una svolta. Si ha la perenne sensazione di star leggendo un’introduzione mastodontica ad un bellissimo romanzo che non arriverà mai. Da cosa è causato questo turbamento? Indubbiamente dalla struttura del romanzo. La narrazione è tutta (e quando intendo tutta, intendo per intero) sviluppata attraverso il discorso indiretto. Un’intera vita (quella di Gogol), dalla nascita all’età adulta, raccontata attraverso quelli che - ahimè - mi tocca definire riassunti. 
I dialoghi sono un miraggio lontano, le interazioni tra i personaggi sono rare e poco esaltanti. In compenso abbiamo un ingorgo di informazioni. La Lahiri mi ha dato la sensazione di essere una scrittrice molto “materiale”. Sono descritti con grande dovizia di particolari gli oggetti che arredano gli ambienti, i vestiti che indossano i personaggi, i colori e gli odori. Per quanto riguarda la natura umana, invece, niente di pervenuto. A parte un sottilissimo involucro superficiale. 
Posso comprendere una scelta stilistica di questo tipo. La Lahiri vuole sottolineare la difficoltà del protagonista (Gogol) a trovare una sua identità, la sua distanza dai genitori, i suoi sforzi per cercare di connettersi ad una realtà che gli sembra aliena. Ma tutto questo non è mai sublimato da immagini forti, potenti. A livello stilistico non comprendo la necessità di mettere ogni singolo dettaglio della sua vita sotto forma di riassunto. Per esempio: ci sono diverse relazioni che il protagonista intreccia con delle donne ed esse appaiono talmente superficiali - per come sono narrate, non per la natura del rapporto - che ci si chiede dove si stia andando a parare. Mi sembra che i temi siano stati indeboliti da questo continuo spostare l'attenzione su dettagli e descrizioni molto fredde e prosaiche. L’interiorità del protagonista non è sublimata dalla narrazione che invece è per una buona parte piatta e cronachista. Si è persa così gran parte dell’emotività del romanzo che infatti risulta asettico e pedante.
Il romanzo per me è debole e poco incisivo. è scritto bene ma non benissimo, la storia è interessante ma non eccezionale. Non è brillante, gli manca slancio creativo. Nonostante ci siano degli sparuti scorci di sapienza narrativa - come la ricorrente immagine-simbolo del treno e i riferimenti a “Il cappotto” di Gogol - essi sono insufficienti a risvegliare l’emotività del lettore.


La parte più gradevole risulta quella iniziale, la storia di Ashima infatti è quella che possiede più cuore e vitalità. Non è un caso che la Lahiri abbia ripreso questo nucleo tematico - che è quello che effettivamente le risulta più congeniale - nel suo ultimo romanzo che, nonostante tutto, voglio leggere: “La moglie”.  
 


venerdì 10 gennaio 2014

Educazione alla gentilezza: Dieci Dicembre di George Saunders

Dieci Dicembre è l’ultima raccolta di racconti di George Saunders, uno degli scrittori più influenti del nostro tempo. Vi ho intimoriti?

Non credo di aver torto quando affermo che il clamore attorno a Dieci Dicembre - il New York Times l’ha definito “il miglior libro che leggerete quest’anno” - sia da imputare quasi interamente a questo signore. 

Saunders piace, anche parecchio. Prima ancora della sua scrittura, è proprio lui ad accattivarci. È un tipo garbato, autoironico. Con una caratteristica particolare, però. Ha negli occhi una bislacca convinzione: vuole migliorare il mondo con un sorriso. Appartiene a quella brutta razza in via d’estinzione: i sognatori. Con l’aggravante di avere una penna in mano. 
Comprensibile quindi l’effervescente entusiasmo che genera Dieci Dicembre e che è ancora più intensificato dalla lettura (Sì, ad un certo punto bisogna anche leggerli i libri, mica solo parlarne!). 

Anche se non arriverete a definire questa raccolta “il miglior libro dell’anno” - cosa che nemmeno io credo, d’altronde - comunque è difficile che non restiate almeno un po’ scossi dall’euforia creativa di Saunders. Tanto che, se non vi piacciono i libri troppo osannati, potete benissimo iniziare da altro. Per esempio, in questo momento, voglio appropriarmi de “Il megafono spento”, sempre edito dalla minimum fax e di cui ha parlato oggi su Internazionale, Giovanni De Mauro.

La raccolta contiene narrazioni molti diverse tra di loro, soprattutto a livello stilistico. Saunders è un camaleonte e adotta diversi registri e soluzioni formali, di modo che il lettore resti sempre spiazzato e debba “ri-sintonizzarsi” quando inizia un nuovo racconto.  
Nonostante quest’imprevedibilità, vi è una costante emotiva che fa da filo conduttore per la raccolta: la scelta tra l’avarizia dei sentimenti o la compassione, l’individualismo meschino o un atto di altruismo. 

Un motivo ricorrente è quello del salvataggio, di particolare rilevanza nel primo (“Giro d’onore”) e nell’ultimo racconto (“Dieci Dicembre”) - per me, i migliori dell’intera raccolta. I personaggi si trovano nella posizione di dover rinunciare alle proprio regole, al proprio ritmo di vita per soccorrere qualcuno, per aiutare uno sconosciuto. Saunders si interroga sulla possibilità di poter ancora compiere atti di disinteressata umanità in un mondo governato da mercati e dove le emozioni sono mercificate.   

Dieci storie originalissime che contengono immagini bizzarre e mondi fantasiosi che celano un intento morale ammirevole e per niente scontato. La satira del mondo moderno che fa l’autore texano ha una vena surreale e immaginifica, non ha i toni duri dell’indignatio ma un’ironia garbata. 
Ciò non vuol dire che sia innocuo o privo di spigoli. Quello che voglio dire è che non è mai disturbante (come invece è stata per me la lettura di quel meraviglioso romanzo che è Mattatoio n. 5 di Vonnegut a cui Saunders è stato spesso accostato).


È difficile costruire delle storie “assurde” che non si rivelino dei vuoti esercizi di stile, dei giochini cerebrali e autoreferenziali. Il rischio di quest’artificiosità è di lasciare tiepido il lettore. Devo ammettere che alcuni racconti, secondo me, sono freddi, non tutti hanno la stessa carica emotiva. Ma d’altra parte è anche normale il fatto che in una raccolta ci siano racconti più o meno belli. 
La possibile mancanza di cuore di alcune short stories è comunque compensata dalle buone intenzioni dell’autore. Insomma Saunders è troppo bravo per non piacerci, troppo anomalo per lasciarci indifferenti. Un libro che dà una chance all’altruismo e alla speranza, di questi tempi è più unico che raro. Sto dicendo che Dieci Dicembre è ruffiano? Probabilmente lo è ma Saunders non lo fa pesare.

Dirò la verità: secondo me, Dieci Dicembre non è un capolavoro. Ma è una sfida contro l’individualismo e gli egoismi del nostro tempo, ecco perché entusiasma (e meno male!).
Saunders ci dice che la disperazione del mondo è sopportabile. Non è buonista, non è mieloso, non è troppo rassicurante. 

“Il bambino si accostò alla recinzione. Se avesse potuto dirgli, solo con uno sguardo: Non è detto che sarà sempre così. All’improvviso la tua vita potrebbe diventare stupenda. Può succedere. A me è successo”.


Dieci Dicembre è un libro prezioso. Per me ha soprattutto un merito: quello di avermi dato una nuova visione della letteratura. Fin ora mi sono sempre accostata ad autori di rottura, immagino sia una fase, che riuscissero a sconvolgermi, a descrivere la brutalità e le contraddizioni del mondo. Ora penso che c’è ancora posto per una sorta di educazione alla tenerezza, al garbo e alla gentilezza nella letteratura, nell’arte. Ed è anche grazie a Saunders.