sabato 12 marzo 2016

"Seppellire i morti, riparare i viventi"



Premessa: questo romanzo è finalista al Man Booker International Prize, avevo sentito numerosi pareri di lettura entusiasti (una recensione sul Guardian, in particolare) e mi sembrava che tutti ci avessero versato sopra copiose lacrime d'amore. Non è che sia un cattivo libro. Lo consiglio, anzi. Soprattutto ai più giovani. Ci fanno leggere tante cose brutte, questa non lo è. Ma non è decisamente all'altezza delle mie aspettative. Non dopo aver terminato da pochissimo la lettura di alieni come Capote, poi. 

“Il cuore è la scatola nera di un corpo”
Cosa archivia un cuore umano? Cosa rimane della vita precedente quando un organo migra da un corpo ad un altro? 
Riparare i viventi” vuole raccontare cosa succede al corpo di Simon, ragazzo di diciannove anni con la passione per il surf, quando cade in un coma irreversibile, a seguito di un incidente d’auto. Quello che si vuole suggerire è che niente è irreversibile, tutto migra e si trasforma. Il cuore di Simon potrebbe essere donato per “riparare” un altro essere umano, per dare nuova vita.  
Non è su questo che si concentra la de Kerengal, però. L’autrice francese indaga su chi resta, sui differenti modi di resistere alla morte, sul “genere di abbraccio che si dà per fare roccia contro il ciclone”.

Il tema della donazione degli organi è affrontato a partire da chi deve scendere a patti con una vita al limite: il cuore ancora batte, la coscienza però non c’è più. Il romanzo avrebbe dovuto concentrarsi sull’abbandono della convinzione per cui il corpo non è solo il nostro involucro ma è la nostra identità e vederlo alterato quando moriamo (anche se per un’azione nobile), ci sconvolge. 
Mi sembra che invece questo resti più che altro un bisbiglio mentre ci si sofferma di più su meccanismi ormai corrosi dalle narrazioni mainstream, che vogliono raccontarci con frasi retoriche cosa sia il dolore della perdita, quando, sono in pochi a riuscire ad avvicinarcisi allo stordimento e al disorientamento che provoca la morte. E questi pochi autori, che sanno parlarci della Morte, non vogliono nemmeno farci capire cosa sia, non cercano definizioni e frasi fatte. 

La de Kerangal decide di incorporare nel vocabolario romanzesco il lessico specialistico della medicina, o meglio, quella del reparto rianimazione, alveolo con ritmi e leggi proprie. 
“Lingua che abolisce ogni prolissità, abolisce l’eloquenza e la seduzione delle parole, abusa di nominali, codici e acronimi (…) potenza della sintesi”
Questa scelta linguistica è ravvisabile all’inizio ma pian piano viene sommersa dallo stile dell’autrice che invece è tutto fuorché sintetico e abbonda di termini astratti e vaghi, molto lontani dalla concretezza della medicina. 
Un altro rimando alla chirurgia è il modo settoriale in cui la narrazione viene tagliata in sezioni che ci mostrano i vari ricordi e vissuti dei personaggi, chi collegato direttamente, chi indirettamente, al cuore di Simon. 
L’idea era quella di pensare al romanzo come un corpo, un tutto che respira. Le storie dei diversi personaggi sembrano essere state scelte per via dei vari organi che portano in scena, vengono chiamati in causa le corde vocali, il diaframma, il sesso. Anche questa scelta, per quanto interessante, non risulta particolarmente congeniale al ritmo della narrazione, le storie sembrano digressioni scollate dalla tragedia che sta affrontando la famiglia di Simon. Si dissipa quasi del tutto il senso di organicità che avrebbe dovuto avere il racconto. 

Estrema importanza ha anche la dimensione del tempo. L’elaborazione del lutto è un processo lento, specialmente se avviene nell’ambiente ospedaliero che risponde a ritmi diversi e spesso opposti a quelli della vita del fuori. L’autrice opera una lunga dilatazione temporale, una sorta di piano sequenza che espande la percezione di ogni momento narrativo. Purtroppo questo senso di dilatazione, che ci rende partecipi di ogni dettaglio, non è sempre spontaneo. Si interrompe troppo spesso il corso degli eventi che sembra essere un suppellettile, a supporto della scrittura compiaciuta della scrittrice.
Lo stile è fortemente disequilibrato. Quando la de Kerengal si sofferma sul concreto, è precisa e raffinata. Riesce ad essere lirica parlando di tecnicismi, quando usa il gergo dei surfisti, il lessico dei professionisti, che sia un artista che plasma la materia o un medico che riflette sulla definizione di morte cerebrale. Quando invece punta alla descrizione del dolore, risulta forzatamente poetica e i suoi tentativi si traducono, troppo spesso, in una cascata di frasi paratattiche che vogliono tutte dire la stessa cosa, abbinate al binario sistema di tripla aggettivazione che, ritengo essere - correggetemi se sbaglio - illegale in almeno diciotto stati. 
"Loro stessi, fallati, spezzati, divisi".
Lo so che è da infami citare frasi mozzate, tirate fuori dal contesto. Ma è quel che è. 

Il problema principale, per me, è la sproporzione retorica. Vi sono momenti inutilmente arzigogolati. Tuttavia, quando invece è necessaria una maggiore drammatizzazione, l’autrice si fa spesso piccina e prosaica e ci vengono restituiti istanti deludenti e depotenziati. Tutti i gesti che i genitori compiono a seguito della morte del figlio, sembrano rituali smorti, sbiaditi, privi di reale autenticità. Non c’è nulla della raffinatezza e della sottigliezza di un Carver (in quel capolavoro che è “una cosa piccola ma buona”), i personaggi sono vittime di automatismi dozzinali (pugni al muro, mani nei capelli, testate sul volante), descritti con artifici retorici banali. 

Indugiare continuamente nelle pieghe di ogni istante (sì, sto scimmiottando) è spesso inutile e frustrante per il lettore. Non si traduce infatti in un’epifania,in momento rivelatorio, riflessione illuminante (sì, la scrittrice usa questo sistema di triplette), bensì in una divagazione retorica che non riserva quasi mai sorprese (non è Nabokov). Non è spiacevole, né particolarmente irritante ma non è nemmeno bello. Uno stile che non è al servizio della trama, non serve i personaggi, serve solo il lettore che si compiace di essere trasportato con faciloneria (non smaccata, ma pur sempre faciloneria) nel mare di struggimento e dolore in cui tutti ci crogioliamo (a livello letterario) quando muore un ragazzino di diciannove anni. 


La frase che possiede più forza evocativa sul tema, rispetto a tutto il resto del romanzo, è: "seppellire i morti, riparare i viventi". E non l'ha scritta l'autrice ma è una citazione

mercoledì 16 dicembre 2015

Consigli per non rovinare il Natale ad un lettore


Una guida economica (o quasi) per restare incolumi dinnanzi la Grande Impresa di fine anno: non rovinare il natale ad un lettore. 
Sì, sto parlando con voi. Mendaci creature convinte che basti una spruzzata d'inchiostro e una rilegatura per far contento chi ama leggere. Non è così. Manifestiamo il nostro diritto di rimostranza. Allora, partecipate anche voi alla campagna: salva un lettore da un abominevole regalo natalizio. Per dire NO a Fabio Volo e Paolo Coehlo. Per la libertà d'indignazione, per il diritto di critica, perché è ora di ribellarsi, amici.



Ora, io sono una grande amante delle liste. Ne scrivo a milioni: sul pc, sui post-it, sulla mano, su foglietti volanti, sul tavolo. Ovunque. Placano la mia angoscia. Mi sento più soddisfatta nello scrivere le cose da fare che nel farle. Lo so, è follia. Benvenuti nella contemporaneità, in cui abbiamo accolto il nostro disturbo ossessivo compulsivo come una cosa bella (Instagram, amici) anziché aiutarci con le pillole. Non lamentatevi della Kondo, giapponesina rassetta tutto, in testa alle classifiche dei libri più venduti. è colpa nostra. Ad ogni modo, non potevo quindi esimermi dal fare una wishlist natalizia, che naturalmente è valida tutto l'anno (il 30 Gennaio è il mio compleanno, friendly reminder). A dire il vero ne ho fatte due. Una su aNobii e l'altra sul social che mi sta rovinando la vita: Pinterest. A cosa serve Pinterest se non a creare utopiche liste desideri che vadano a colmare il vuoto di noi figli del materialismo più becero? Ma so che anche voi bramate l'unicorno di Tiger, suvvia. 



Posto che consultare le wishlist dei vostri benamati, resta la soluzione migliore, passiamo ad elencare la vasta gamma di titoli (sì, i libri belli esistono ancora e sono pure tanti) che attendono solo di essere comprati e impacchettati da voi. 



Per chi non abbia la forza (né la volontà) di sorbirsi stoicamente ventisei minuti di video (a mia discolpa posso dire che prima del montaggio erano quaranta), a seguire l'elenco dei titoli citati (e relativi approfondimenti video o recensioni). 

Quando siete felici fateci caso - Kurt Vonnegut, min 01:58
Espiazione - Ian McEwan (qui la recensione), min 03:56
La breve favolosa vita di Oscar Wao - Junot Diaz (qui il video in cui ne parlo), min 04:45
Il signore degli orfani - Adam Johnson (qui la recensione), min 05:51
La porta - Magda Szabo, min 06:50
Pastorale Americana - Philip Roth, min 08:08 (dell'autore vi ho già parlato qui e qui e qui) 
Marcello Fois - Stirpe, Nel tempo di mezzo, Luce perfetta, min 09:27 (qui la recensione) 
L'amica geniale - Elena Ferrante, min 11:16 (ve ne ho parlato copiosamente qui)
La gigantesca barba malvagia - Stephen Collins, min 12:24
Dimentica il mio nome - Zerocalcare, min 13:53
I figli del capitano Grant - Alexis Nesme, min 15:02
Raccontare il mare - Bjorn Larsson, min 16:21
Leviatano - Philip Hoare, min 16:49
Abbiamo sempre vissuto nel castello - Shirley Jackson, min 17:08
Annientamento - Jeff Vandermeer, min 18:26 (già parlato della trilogia dell'area x qui, qui, qui e qui
A pesca nelle pozze più profonde - Paolo Cognetti, min 19:18 
Il mestiere di scrivere - Raymond Carver, min 20:05
La morte del padre - Karl Ove Knausgard, min 20:20 (ve ne ho parlato qui
Vari Bur classici, edizioni illustrate, min 21:25 
Harry Potter e la pietra filosofale (versione illustrata), min 22:11 
Middlemarch - George Eliot, min 22:31 (ve ne ho parlato qui
Villette - Charlotte Bronte, min 22:50
Il grande mare dei sargassi - Jean Rhys, min 23:04
Chi ti credi di essere - Alice Munro, min 24:07 (ve ne ho parlato qui)
La boutique del mistero - Dino Buzzati, min 24:54 (citato innumerevoli volte, tra cui qui)
Sillabari - Goffredo Parise, min, min 25:30 (anche lui sempre qui

Dopo avervi intontito più del cenone e dei sollazzi di fine anno, mi eclisso. Ma non prima di avervi augurato buone feste, di tutto cuore. Grazie per seguirmi sempre con lo stesso entusiasmo ogni anno. Un bacione alla mamma (e questa volta anche ai vostri cari). 

mercoledì 9 dicembre 2015

Leggere non solo con gli occhi

Vi siete mai soffermati su che cosa voglia dire “leggere”? Dimenticate l’aforisma di Kafka (“un libro deve essere l'ascia che rompe il mare ghiacciato che è dentro di noi”) o le frasi slogan che fanno vendere tanto merchandising all’interno delle Feltrinelli (“Leggo perché sono libera” e affini). Mi riferisco alla prassi, all’azione concreta della lettura. Aprire un libro, sfogliarlo, visualizzarne ogni singola parola, seguire con gli occhi le frasi da un capo all’altro della pagina. Il canale di comunicazione: dagli occhi alla mente. Avete mai pensato al fatto che ci sono persone che non possono “leggere” in questo modo perché questo canale gli è precluso? Probabilmente no. Raramente ammetto di averlo fatto io. La realtà è che spesso ignoriamo del tutto che le stesse storie che amiamo possono essere conosciute in maniera completamente diversa, diventare accessibili attraverso altre strade, che non partono dagli occhi per arrivare a noi. 
Sapevate che le persone non vedenti e ipovedenti sono tra i lettori più forti in Italia? Eppure non godono di “parità” effettiva per ciò che riguarda la lettura, almeno non ancora. 
Ho conosciuto uno spicchio del loro mondo, attraverso un reading al buio, organizzato dalla Fondazione LIA (Libri Italiani Accessibili), tenutosi nella cornice del Laboratorio Formentini per l’editoria. 
Cos’è un reading al buio? è l’incontro con la quotidianità dei lettori non vedenti. L’occasione per scoprire come si legge un libro, non attraverso gli occhi. In condizioni di semioscurità, Paolo Colagrande - autore di “Senti le rane” (edito da Nottetempo), tra i finalisti del Campiello di quest’anno - con l’aiuto di Antonino Cotroneo, lettore ipovedente, ha letto alcuni passi del suo romanzo. 


Antonino, al termine del reading, ha spiegato davanti alla classe di ragazzi chiamata all’ascolto, i diversi strumenti utilizzati per la lettura. Oggi la tecnologia permette di leggere in maniera più rapida e semplice, addirittura attraverso lo smarthphone (e i suoi processi di sintesi vocale), non soltanto in braille. Sapete quanto è difficile (e costoso) realizzare un libro in braille? Pensate che la saga di Harry Potter potrebbe occupare un’intera stanza di carta. La Fondazione LIA, coordinata dall’AIE e finanziata dal Ministero dei Beni Culturali, si occupa appunto di sfruttare le nuove tecnologie per realizzare ebook (il loro catalogo è di oltre 9 mila e-book accessibili) che rendano possibile la lettura alla comunità di lettori italiani con disabilità visive.
Personalmente, il modo in cui ho “letto” il testo di Paolo Colagrande ha suscitato sensazioni diverse rispetto alla mia solita esperienza di lettura. Ha dato un’altra dimensione alle parole, quasi più concreta. Le frasi assumevano una sostanza sonora, non si limitavano ad esistere solo nella mia immaginazione. Il reading al buio non è servito semplicemente a sensibilizzare su una realtà “difficile” ma, al contrario, ha dimostrato prima di tutto come accessi diversi alle stesse risorse (le storie) non diano come risultato la stessa esperienza. L’uguaglianza (parità di accesso, stesse possibilità di leggere per tutti) non è sinonimo di omologazione. L’ascolto non è lo stesso senso della vista, così come il tatto - decifrare ogni puntino con le dita (per chi legge in braille) - non equivale al seguire ogni frase con lo sguardo. Per tale motivo non si parla di sostituibilità ma di accessibilità. Sono due mondi diversi, due linguaggi diversi, due traduzioni diverse della stessa storia.


Dopo il reading, Antonino Cotroneo ha fatto un esempio illuminante. La classe di ragazzi che hanno partecipato all’incontro frequenta un istituto tessile. Antonino ha chiesto loro: “E se improvvisamente foste costretti a cucire solo vestiti della stessa taglia? O della stessa fantasia?”. 
Sarebbe un mondo piatto, privo di immaginazione. E così è per i libri. Leggere è diverso per i lettori non vedenti o ipovedenti, non migliore o peggiore. Dipende solo da noi rendere per loro l’esperienza della lettura facile o molto difficile. La Fondazione LIA si occupa proprio di questo e spero che possiate seguirla e supportarla nel suo percorso (sempre in crescendo) verso l’uguaglianza. 
Ormai è strabusato l’esercizio di retorica superficiale su quanto la lettura ci renda migliori, più felici, più bravi, più belli. Suggerisco di abbandonare gli slogan e di concentrarsi su cosa la lettura sia prima di tutto: un diritto. Facciamo in modo che sia accessibile a tutti.  

sabato 7 novembre 2015

L'orrendo ignoto di Jeff Vandermeer


"Accettazione" - capitolo conclusivo della trilogia dell’Area X  -  è l’ennesima apnea nel conturbante oceano creato da Jeff Vandermeer. 
Preparatevi a rimanere intrappolati, come i protagonisti, per delle lunghissime ore nell’Area x, per di più nel bel mezzo dell’inverno. Se Autorità - secondo capitolo della trilogia - adottava un punto di vista esterno alla Zona anomala e ci offriva un quadro meno compromesso, un’inquadratura dal confine, in Accettazione ci troviamo di nuovo nel caos dell’Area X, a fare i conti con tutte le sue bizzarrie faunistiche e anomalie topografiche. 

“Quando hai deciso di entrare nell’Area X hai rinunciato al diritto di dire che una cosa è impossibile”.

Ancora una volta, infatti, è lei la protagonista decisiva della narrazione: l’Area X. Lo scenario inquietante, dipinto da Vandermeer, vede l’uomo ostaggio di un luogo che gli è ostile o, ancor peggio, indifferente a tal punto da fagocitarlo per istinto. La natura ha acquisito coscienza propria, un proprio respiro, una propria volontà. Dall’incontro con questo orrendo ignoto nascono l’ossessione e la paranoia della contaminazione che seguono le classiche atmosfere del body horror (le copertine disegnate da LRNZ danno un’idea). L’ambientazione creata da Vandermeer rappresenta l’ecosistema naturale danneggiato, la prefigurazione di una Natura che, dopo essere stata a lungo contaminata, sia andata incontro ad una trasformazione che anziché farla morire, l’abbia portata ad assumere la capacità di attuare un’invasione, agendo completamente al di fuori della portata dell’uomo.  Risuona beffarda di sottofondo l’impotente retorica delle Smart Cities a misura d’uomo (e magari con tanti spazi verdi!). Per quanto l’Area X sia un’ambientazione aliena, nel terzo capitolo diventa ancora più evidente il sospetto che sia certamente il prodotto dell’azione umana e quindi sua precisa responsabilità. Di definizioni per descrivere questo particolare filone ne sono state date tante: new weird, eco-thriler, climate fiction…
Tutti figli del grande calderone dello sci-fi, che si presta benissimo a rappresentare i diversi scenari del mondo che verrà. Sembrerebbe che tutti cullino lo stesso presentimento: il futuro sarà da incubo, soprattutto se continuiamo ad agire indiscriminatamente sull’ambiente che ci circonda.


La trilogia s’incastra su un binomio particolare: da un lato l’ombra della responsabilità umana, dall’altro l’impotenza dei personaggi contro questa nuova Forza che li infetta. I protagonisti infatti sembrano sotto scacco, sempre frustrati dall’inconoscibilità dei misteri dell’Area X. Questo impasse viene parzialmente superato in Accettazione che - per quanto il titolo presupponga una sorta di rassegnazione a fare i conti con forze più potenti di noi - si risolve in un finale particolare, in cui il “sacrificio” e il libero arbitrio dell’uomo contano ancora qualcosa.
Lo stato psicologico dei personaggi è, di nuovo, centrale, forse ancora di più che negli altri capitoli. La narrazione risulta più densa, ricca di personaggi e sfaccettature. Ci si muove tra più piani temporali(numerosi sono i flashback che contribuiscono a dipanare molti dei misteri lasciati in sospeso negli altri volumi) e diversi punti di vista che danno più dinamismo alla storia, soprattutto se paragonati al punto di vista unico dei precedenti capitoli, a volte asfissiante. Spesso pesa eccessivamente l'indugiare dell'autore in descrizioni macchinose sull'alterazione mentale dei personaggi ma è innegabile che i protagonisti, stavolta, hanno più agency. Soprattutto perché Vandermeer utilizza l’Area X come una sorta di purgatorio in cui pagare gli sbagli, le scelte (e le non scelte) della propria vita:
“Varcare il confine significava entrare in un purgatorio dove trovavi tutte le cose perse e dimenticate”.
L’idea è quella di creare un luogo estremo in cui le percezioni siano alterate, amplificati i ricordi, i rimpianti. Accettazione è il più insidioso dei tre capitoli, si muove tra due mondi, all’interno dell’Area X e all’esterno, nel mondo della vita quotidiana e nel mondo dove tutto è possibile e dove però tutto sembra allo stesso tempo più intenso, più reale. 
“L’unico pensiero che si insinua la sera, dopo un appuntamento dal medico o un salto al supermercato: in che mondo vivo in realtà?Puoi esistere in entrambi?”.  



Molto insistito è il motivo dello sguardo, creatore di mondi, che ricorda la metafora cinematografica. Si riflette nel continuo rimando all’idea di sorveglianza che c’è all’interno dell’Area X - “Del resto in quei luoghi qualunque cosa spiava e veniva spiata”- sia nel rimando continuo alla luce (tutto sembra animarsi sempre con un’illuminazione o un luccichio) e addirittura si fa un’ipotesi azzardata su come tutto possa essere nato per colpa di una lente…
C’è anche un fondo di metaletterario in Vandermeer: la figura dello Scriba in primis, ma in maniera più sottile, ciò che vedo, vive. Ciò che illumino, creo. Ciò che scrivo, forgio. 

Infine, nella trilogia, tutto è connesso. Luoghi e persone presenziano nella narrazione sempre come immagini speculari, doppioni che vivono in simbiosi. Il faro che rimanda ad un altro faro, il tunnel che gli è speculare, i doppioni fantocci ecc…
“Un faro che proiettava il suo segnale verso un altro faro”.

La trilogia dell’Area X è così conclusa. Un lavoro che è intessuto di echi, rimandi, il meglio delle suggestioni dello scrittore (in primis, Lost), rielaborati in questa trilogia “anomala”, una breccia nella mente, una singolarità. S’inserisce perfettamente nelle tendenze dello storytelling contemporaneo: serialità e coralità, un universo immersivo , capace di catturare il lettore con ingegno e raffinatezza. 


Unico appunto: avrei forse preferito più concretezza nella descrizione di alcune "creature" che popolano l'Area X, meno vaghezza. Ammetto di non essermi immaginata molti dettagli, descritti in maniera fin troppo ermetica.  

martedì 30 giugno 2015

Uragano Roth: La macchia umana

Avvertenze: 
1) questa sarà una lunga, lunghissima - probabilmente sconclusionata - tirata, i miei due cent, su un signore che assomiglia spaventosamente ad Italo Calvino (e a Neri Marcorè). 
2) A me piacciono moltissimo gli avverbi e li uso spesso in maniera inappropriata. 
3) Non ho ricevuto una solida formazione critica e questo è solo il frutto di letture disordinate e un’inesauribile curiosità. 

Ho da pochi minuti terminato la lettura de “La macchia umana” di Philip Roth. 
Ci sono quei libri che si insinuano all’interno del tuo consolidato nido di credenze, idee, saperi, pregiudizi, convinzioni - che hai fortificato con fatica e scrupolosa dedizione in vent’anni di scuola, vita familiare, cadute e ripartenze sentimentali - e sai già che non c’è più nulla da fare. Arrivano per scombussolare tutto, tocca ricostruire il castello di carta della tua identità da capo. 
Sono libri alteri, sdegnosi. Non smetterai mai di consigliarli, di parlarne, di instaurare confronti e soprattutto li rileggerai. Probabilmente subito dopo averli terminati, li ricomincerai.  Questo è il destino fortunato di libri come “La macchia umana”. 
Il mio primo Roth. Considerato uno dei più grandi scrittori viventi, vittima felice del totoNobel praticamente ogni anno, scatenato, chiacchieratissimo Roth. Ho sempre nutrito un timore reverenziale (vi rassicuro: non c’è ragione) verso queste figure della letteratura. Acquistano un’aria familiare, il loro nome - dappertutto letto, dappertutto udito - diventa quasi una sagoma. Roth, in particolare, con le sue consonanti finali, due arroganti fricative dentali, me lo immagino sempre con una giacca di lana cotta, modello coloniale, con le sopracciglia aggrottate, propenso verso di me come un grosso rapace ma dallo sguardo ironico. 
Si dia il caso che l’autore Roth sembri (e badate, sembrare è un verbo spietato) rassomigliare straordinariamente ai personaggi che raffigura. Vi avverto, prima di scrivere non ho cercato informazioni biografiche, né recensioni né alcun tipo di materiale a supporto di questa tesi. Semplicemente sembra così. Da lettrice, vedo che Coleman Silk è simile al suo artefice e l’autore si limita, come dire, a quest’opera di svelamento e occultamento continuo dello specchio. è così vicino, così vicino all’essenza del personaggio che dev’essere lui. Sappiamo che lo scrittore deve essere un abilissimo fingitore ma siccome io non credo ad un’abilità portentosa nel dissimulare che sia completamente disinteressata, devo pensare che il demone a cui risponde il signor Roth sia di natura personale. Non esiste che si vada così a fondo ad un personaggio senza che ci sia qualcosa di tuo. E tutta quella storia sulla necessità del testimone - perché il resoconto della faccenda qui ci viene fornito dallo scrittore Nathan Zuckerman - è una grossa panzana e qui si sta parlando di un meraviglioso alter ego. Anzi di due: Nathan Zuckerman, narratore degli eventi, e il coetaneo Coleman Silk, nella parte del povero viveur. La testimone unica è la scrittura. L’autore per proteggersi deve inventarsi delle maschere ma sappiamo tutti che razza di narcisi egocentrici siano, con noi non attacca.
D’altra parte, non credo che lavorando di fantasia il signor Roth sarebbe stato in grado di arrivare a tali vette di autenticità. Il protagonista dunque è una personalità formidabile e così il suo creatore. Ora possiamo addentrarci nel fitto della foresta nera. 
L’evidenza è che il romanzo - ma forse tutta l’opera dell’autore - si giochi su un crudele tiro alla fune. L’agone si tiene tra l’audace individualismo, l’autoaffermazione del sé al di là di qualsiasi vincolo sociale (persino familiare!) e dall’altro lato i dispositivi della società - il meccanismo del decoro, brutta bestia per Roth - che tentano di ricondurre lo scandaloso fluire della vita in fredde categorie, rigide convenzioni, etichette restrittive.
Nello specifico, Coleman Silk è un professore universitario sulla settantina la cui carriera impeccabile si macchia irrimediabilmente quando viene accusato di razzismo. Coleman usa la parola spooks per riferirsi a due studenti di colore. Il termine ha due accezioni: la prima è spettri, intenzionalmente utilizzata dal professore, facendo riferimento all’assenteismo dei due studenti (che lui non ha mai visto!); la seconda invece è un insulto spregiativo, negro. La prima sfumatura di significato appartiene al vocabolario, alla lingua codificata, il significato originario. La seconda appartiene allo slang, la lingua corrente che modifica e manipola i significati, si adatta alla mutevole contingenza della vita, alle congiunture della storia e vive di contraddizioni. La lingua è biforcuta, ambivalente, cela sempre un paradosso, un’opposizione. 
Una sola parola, pronunciata da un uomo di lettere (lettere antiche, lettere classiche), si rivela rovinosa. Diventa infatti il pretesto per infamare una figura rispettabile, eppure odiosa. Coleman infatti è apparentemente inserito nella convenzionalità - un distinto accademico, benestante, una famiglia numerosa, un aspetto piacente, un fisico ancora agile - eppure è scomodo, all’interno della comunità. Perché eccessivamente brillante, una sorta di despota, dalla mente tumultuosa. Ha trascinato fuori dalle secche intellettuali il campus, tagliando via i rami secchi (licenziando le cariatidi nullafacenti). Ironicamente potremmo dire, per usare un termine logorato dalla cronaca politica, che la sua opera di rottamazione ha fatto esplodere un sistema farraginoso per inaugurare un nuovo corso, più meritocratico, più dinamico. Un professore tanto illuminato quanto detestabile, per la sua arroganza, i suoi azzardi, la sua titanica personalità. 
L’accusa di razzismo non cadrà immediatamente - come vorrebbe il buon senso - nessuno infatti si schiererà apertamente dalla parte di Coleman che così dovrà sottostare a dei processi farsa, interrogatori, indagini interni al campus che sono più una beffa che una condanna. L’intento dei colleghi non è quello di rovinarlo bensì di mantenerlo sulla graticola, di vederlo rosolare, che mostri un po’ di umiltà. Ma Coleman Silk non riesce ad accettare l’onta subita, e proprio quando tutti stanno per dimenticarsi del piccolo scandalo, il professore decide di dimettersi, ritirandosi in uno sdegnoso e rabbioso esilio. Due anni dopo, riesce a liberarsi del rancore che l’ha quasi soffocato, abbandonandosi ad una relazione con Faunia, una silvestre creatura di trentaquattro anni, che risveglia una forza invisibile ed incontrollabile, quasi più dell’odio che per anni lo ha imprigionato: il desiderio. Il perbenismo della piccola comunità lo attacca nuovamente con ferocia accresciuta. Ogni atto commesso da Coleman sembra suscitare una condanna, ormai è macchiato, è l’appestato con la campanella.  


In un primo momento, dunque, la tenzone interna alla narrazione è tra la libertà dell’individuo (specialmente l’individuo eccezionale) di affermarsi con tutto il peso della sua persona (è interessante il fatto che in latino persona voglia dire maschera, ma ci torneremo dopo) al di là della morale comune, al di là delle etichette di giusto e sbagliato (spesso non coincidenti con bene e male) e la brutalità, la forza schiacciante della società che tenta di ricondurre la volontà particolare alla cieca volontà generale della storia con i suoi meccanismi culturali disciplinanti e disciplinati. 
Coleman è scandaloso, Coleman va punito. Questo professore che non si rassegna, che vuole smaccatamente vivere al di fuori della decenza.   





Da un lato, abbiamo la raffigurazione di questi grandi narcisi con la loro fitta retorica del sé e i loro slanci virtuosistici della Parola e dell’ingegno. Dall’altro abbiamo un continuo infierire su di loro con le armi affilate della calunnia e del pettegolezzo e il conseguente disonore per il nostro protagonista. Le personalità formidabili si ricollegano ad un elemento fondante della società americana: l’individualismo. Un individualismo però sempre teso come un dardo verso una realizzazione del sé, frustrata dal perbenismo e dall’ipocrisia della comunità.  
Non cedete all’autoinganno, non fatevi stregare dal fingitore. Non è un duello ad armi pari. Non c’è una vittoria morale dello spirito del protagonista, superuomo che si rivale sulla grettezza e la mediocritas della società americana. 
La grande lezione di Roth è che tutta la grande importanza data alla personalità, all’individuo, è infine sempre sbilanciata (a suo sfavore) dal memento riguardo la sua insignificanza. “Non eravamo più romanzeschi di quanto gli animali fossero mitologici o impagliati”. 






Il discorso di Roth non si limita a criticare quel costrutto per cui “tutti sanno”.  L’inconscio collettivo, quella lava vischiosa di pregiudizi e ideo precostituite che abbiamo sull’umanità. Perché un vecchio di settantuno anni non si vergogna di andare a letto con una illetterata bidella di trentaquattro? La donna sarà certamente vittima di  una manipolazione, di uno sfruttamento. Perché un professore non porge delle scuse ufficiali a due studenti di colore che ha denigrato verbalmente? è un razzista, è un arrogante tiranno. Ripeto, Roth non si limita a ribaltare quel “tutti sanno” in “nessuno sa” e a dileggiare la presunzione di avere qualcosa in più di una conoscenza parziale, fallace di ogni individuo. In altre parole, il protagonista non è un agnello sacrificale. Coleman Silk non è il fulmine che spezzerà la quercia della tradizione - per usare una metafora dell’epica lucanea - e per questo condannato come moderno Cesare, pagando il dazio della sua eccezionalità. 
Se fosse così il romanzo si sarebbe rivelato soltanto interessante, il classico, confortante relativismo zoppo sulla società meschina e il suo Ercole frustrato dalle invidie. Questo tipo di romanzi che siamo abituati a leggere troppo spesso non arriva ad abbracciare una visione più ampia. Se vogliamo scomodare un eroe, mettiamo in gioco Icaro, più che Ercole. 
Infatti, il romanzo trova la sua forza nella natura paradossale del protagonista. L’ambiguità si gioca a più livelli. Abbiamo visto che il protagonista è già sdoppiato in uno scrittore (Nathan Zuckerman, protagonista ricorrente nei romanzi di Roth ed ennesimo suo alter ego). Quel che non sappiamo è che il protagonista custodisce un segreto molto ingombrante, una sorta di identità negata. Un ennesimo sé, sebbene sia un sé rinnegato. In altre parole, più scaviamo, più vediamo la macchia di Coleman. La vera macchia, non quella fasulla, appiccicatagli addosso dalla società ma quella inconfessabile, il segreto ignominioso che Coleman non può rivelare.
Il paradosso non sta nel fatto che una parola così piccola e anche un po’ ridicola - spooks - possa generare una valanga di conseguenze spiacevoli ma nel fatto che l’unica verità che può riscattarlo pienamente dall’accusa, è impossibile da pronunciare perché cela una vergogna molto più grande. 
Riflettevamo prima sulla persona. In latino, il termine è strettamente connesso al volto, tant’è vero che etimologicamente possiamo risalire al significato di “individui mascherati”. Ebbene, il volto che Coleman mostra  è sempre una costruzione, sempre una maschera. Che libertà c’è nel nascondersi? 
Il paradosso è ovunque in questo romanzo. Non si ferma all’ambiguità del linguaggio - la lingua biforcuta di cui parlavamo prima - ma si insinua ad ogni strato. è paradossale il modo in cui tutti credano - in maniera quasi inconscia - alle calunnie sul conto di Coleman, persino i suoi figli. Lo sforzo fatto per educarli, per trasmettergli tutta quella cultura, comprensione e tolleranza, risulta vano. Sono disposti a credere alle più fuorvianti sciocchezze sulla vita del padre “come se fosse una soap opera vittoriana”. La fragilità del buon senso contro forze più grandi di noi, forze dell’inconscio, il nostro “sentire comune”. La febbre del pettegolezzo che contagia anche gli animi più saldi, quella presunzione di conoscere il prossimo, le sue gioie ma ancor di più le sue nefandezze. "Tanta istruzione non serve a nulla, nulla può isolare dal più infimo livello del pensiero". Quel “tutti sanno” che in realtà è sempre “nessuno sa”.  
Il paradosso sta nel fatto che tutti condannano Coleman per le ragioni sbagliate, e la frustrazione è maggiore. Forse la pena risulta doppiamente atroce per Coleman proprio perché è schernito da ragioni misere e grette, anziché essere smascherato per la sua vera empietà. Perché nessuno conosce la vera macchia di Coleman. A questa paradossale miopia della società corrisponde invece la lucida e precisa prospettiva multifocale di Roth che ci offre una varietà di personaggi e di punti di vista, la molteplicità e l’ambiguità dei loro desideri. Roth profana il mito della purezza e del decoro. Ci mostra le nostre eresie, i nostri sotterranei illeciti, la nostra inevitabile corruzione. 






Avvertenze, parte seconda 
Da qui in poi consiglio la lettura solo alle persone che hanno letto il romanzo, sebbene io ritenga davvero una sciocchezza leggere Roth preoccupandosi di eventuali “spoiler”. Sarebbe come precludersi di leggere Anna Karenina perché sai già che fine farà la fiamma della candela(1) 

Non si può giudicare il romanzo prescindendo dalla Grande Bugia di Coleman perché essa è lo specchio che riflette tutta l’azione del protagonista. è una strana legge del contrappasso. Coleman si arruola nei Marines fingendosi ebreo, un ebreo bianco. Un nero che non può aspettare che la società sia pronta per accettarlo, che vuole “forzare la serratura del meccanismo” della storia, che vuole piegare quel grande dispositivo disciplinante che è la società, inserendosi a forza in una categoria “giusta”, rispettabile, decorosa. 



L’iconoclastia di Coleman Silk arriva a rinnegare la sua famiglia, la sua stessa madre per sviluppare il suo io, in piena libertà. Comprendiamo Coleman. Ma il suo gesto è eroico? Forse è tutto qui il romanzo di Roth: "l’indivisibilità dell’eroismo dalla vergogna". La sua potrebbe sembrare una giustizia riparatrice (ai suoi occhi, certamente lo è). Potrebbe sembrare legittimo sfuggire ad una categoria per sviluppare la sua piena personalità. Ma innanzi tutto ci si può chiedere, quale persona si sia formato Coleman, balzando metaforicamente fuori dalla sua pelle originaria. Ha sviluppato il suo vero sé al di là dei pregiudizi della società o ne ha soltanto creato un altro, per quanto inattaccabile  nella sua versione rispettabile? Il Coleman nero e il Coleman bianco, chi dei due è quello più valido o meno valido? Dopo anni trascorsi nella convenzione, il professore bianco ebreo - per lungo tempo auto assoltosi - viene improvvisamente ricatturato dal meccanismo della storia, di cui siamo prigionieri. Viene colto in fallo da una parola - o meglio, dal suo significato contingente, storico, gergale -  e per ironia della sorte viene accusato di razzismo. Proprio lui, che è nero, che ha fatto di tutto (persino l’inimmaginabile Rifiuto della Madre) per sfuggire a quel pregiudizio che ora gli rinfacciano! Tanto più minuscolo è l’errore, tanto più rovinoso il suo fallimento. 
Siamo "bestie carnali" immerse in un gioco beffardo, da cui è impossibile esimersi. L’estenuante sforzo di Coleman, la sua smania di liberarsi da quel “noi” di appartenenza alla cultura afroamericana, alla sua negritudine, è annullato da una parola (che è naturalmente solo la miccia). In altre parole, la brutalità del tempo presente - della storia che ancora non è storia - è di mille volte superiore alla nostra, seppur eccezionale, individualità e ai suoi tentativi di elevazione. E qui ritorniamo all’inizio, al primo punto, al gioco alla fune tra l’individuo (il suo narcisismo, la sua ambizione di forgiarsi uno storico destino) e il costante monito alla sua insignificanza. "La libertà è pericolosissima, e non esiste nulla che rispetti per molto tempo le tue condizioni".  Quel “Noi” da cui Coleman vorrebbe sfuggire, non permette fuga alcuna. 

Un ultimo spunto di riflessione appare d’obbligo. Con tutti questi interrogativi sulla verità, sulla storia e le sue convenzioni, sulla fallacia del sapere, del linguaggio e della parola - c’è una bellissima citazione da poter sfoderare ad una cena che è questa: “la verità sul proprio conto non è conosciuta da nessuno e spesso meno di tutti da se stessi” -  che via d’uscita c’è, se c’è?  

Prima abbiamo parlato di prospettiva multifocale, a proposito di come Roth voglia renderci partecipi dei retroscena, di più personaggi, non solo il traditore della razza, il figlio senza cuore, il grande narciso Coleman. Per ciò quello di Roth aspira ad essere un romanzo totale (vd. punto tre delle avvertenze iniziali), non tanto impegnato nella vertigine della lista che sembra la smania del nostro tempo (sono piuttosto ambivalente su questo punto perché amo Donna Tart ma detesto Murakami e Jumpha Lahiri - ci sarebbe da aprire un’altra parentesi ma sono clemente). Bensì nel restituirci un’immagine il più possibile meticolosa e nitida della multiforme natura della vita. Tutto questo spiegare incessantemente fin nel più piccolo dettaglio ogni svolta del labirinto della mente dei personaggi, come possiamo definirlo se non totale?
Su tutto per altro domina una vena d’umorismo, da giocoliere relativista che salta continuamente tra ciò che è rivelabile e ciò che non lo è. La letteratura quindi è testimone fedele e inaffidabile, allo stesso tempo. Non è certamente consolatoria ma anzi pone un argine al nichilismo perché si spiega, è il mezzo di rappresentazione del sé meno indulgente, più spietato. L'arte che si avvicina di più a scoprire se dietro le mere azioni, dietro i fattori sociali che ci definiscono, c’è ancora spazio per pensare all’individuo come qualcosa di separato da tutto questo. E per pensare alla “vita come un concetto il cui fine è nascosto”, sfuggente. 
Infine, “su tutte le nobili giustificazioni, cala il martello di Faunia”.
Se c’è qualcosa che può salvare Coleman, che può ridargli dignità e senso, è il desiderio, l’unica forza incontrollabile e tumultuosa che si può opporre al logorio del rancore. Roth d’altronde decide di chiamare questa caricaturale salvatrice, Faunia, come il fauno/satiro della mitologia antica, simbolo del vitalismo, della frenesia e dell’ebbrezza dei sensi. Tanti sono i richiami al mondo classico (Coleman è un professore di letteratura latina e greca) ne La macchia umana, che può essere in un certo senso definito una tragedia postmoderna (2), libertina, indecorosa, nell’accezione più bella del termine. “Ha qualcosa in comune con l’Iliade, libro preferito di Coleman sullo spirito barbaro dell’uomo”.

Insomma, ho detto molto ma non è ancora abbastanza esaustivo come commento per un romanzo di tale portata, davvero magnifico. Dopo questo primo round, mi aspetta Goodbye Columbus e poi molti altri ancora. Non ho nessuna intenzione di uscire dall’uragano Roth. 

NOTE:
(1) Un mužicjòk, dicendo intanto qualcosa, lavorava su del ferro. E la candela con la quale ella leggeva il libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, s’infiammò d’una luce più vivida che non mai, le illuminò tutto quello che prima era nelle tenebre, scoppiettò, cominciò a oscurarsi e si spense per sempre.
(2) "Il grande dramma dell’uomo che è saltar su e andarsene. Per diventare un nuovo essere umano. Per biforcarsi". 

sabato 20 giugno 2015

L'eterna sera di Silvio D'Arzo


C'è questa espressione che non mi va più via dalla testa: "spolveriamoci il cuore e non pensiamoci più". Sembra una di quelle frasi simpatiche, ironici inserti colloquiali che gli scrittori usano spesso.  Io invece credo che racchiuda tutta la tristezza del mondo. E D'arzo ci avverte: "quando ci si mette il mondo sa ben essere triste, però. Ha perfino intelligenza in questo". I racconti provano a sussurrarci le cose che si possono dire solo al buio, che non si ha il coraggio di riportare del tutto alla luce. Come la signora Nodier. Una vedova che, senza morire, ha arrestato il corso della sua esistenza. Quando un soldato le riporta a casa l'amata cagnolina del marito defunto, non riesce a sopportarne la forza della vita e la fa imbalsamare.
La dimensione di questi brevi racconti è quella di un'infelice (ma sopportabile) quiete, quella di un'eterna sera. I personaggi sono quasi tutti senili, ipnotizzati dagli spettri dei ricordi. Attendono. Più che le parole (per cui i protagonisti provano addirittura vergogna), parlano i colori del cielo di montagna: il viola, il blu, il grigio, l'ottone. Stiamo sospesi, non nella malinconia, né nel dolore né nel rimorso (come ci avverte il protagonista alla fine del racconto principale). Bensì in un grande vuoto. "Qualcosa era successo, una volta, e adesso era tutto finito". 
Per fortuna Henry James si fa sentire a distanza di molte lune (che D'Arzo ama tanto). La sua influenza, sebbene ovvia, non è ingombrante e questa raccolta è una gemma. Lo stesso non si può dire per l'edizione Einaudi del 1980. Capisco tutte le vicissitudini editoriali che ha passato questo piccolo libriccino però non si può trovare nel testo "Cecof" al posto di Cechov, e una cascata di virgole messe a caso, due punti ripetuti come se fosse uno scritto in codice morse ecc.. Noto con piacere che è stata fatta una nuova edizione (in biblioteca purtroppo era disponibile solo una copia malconcia dell'edizione trapassata) e spero che sia stata corretta (o quanto meno, rivista!) la singhiozzante punteggiatura. Mi rifiuto di credere che D'Arzo la usasse in maniera così scellerata.
Ad ogni modo, leggetelo, amici.

sabato 25 aprile 2015

Stalin + Bianca, Iacopo Barison. Il balletto meccanico dell'apocalisse.

Tra i candidati del Premio Strega 2015 (poi escluso dalla cinquina)
Edito da Tunué, collana Romanzi, pag. 175, 9,90 


Un ragazzino con una videocamera in uno stadio vuoto. Accanto a lui, Bianca - una ragazza cieca e bellissima - di cui è innamorato. Stalin, lo chiamano. Per via dei suoi folti baffi. Soffre d’improvvisi attacchi d’ira che riesce a tenere a bada ingurgitando pillole da un blister che porta (quasi) sempre con sé. Sta per compiere diciotto anni (anche se non vorrebbe). Sta per commettere un’azione a cui non potrà più porre rimedio (anche se non vorrebbe). Sono entrambi giovani e soli. Questa è la storia della loro fuga, attraverso un mondo contaminato e freddo che sembra non avere più molto da offrirgli. 

“Il mondo è arrivato ad un punto morto”

La provincia da cui fuggono è gelida e quasi disabitata, una “palette di grigi” da cui tutti tentano di allontanarsi. Verso dove? “Dove non c’è la neve”. La realtà immaginata da Barison è infatti cupa, dagli accenti apocalittici. Il mondo è irrimediabilmente contaminato, guasto, al capolinea. Eppure la morte descritta di Barison non è fatta di violenza, brutalità, panico. è una disperazione sorda, avvolgente, pigra. La foschia circonda tutto, il lento deteriorarsi del pianeta è uno spettacolo malinconico.
 La società occidentale ha perso colore e autenticità ma non i suoi comfort. D’altra parte, “il mondo è sull’orlo del baratro ma non è ancora caduto”. La Capitale è lasciva, squallida, irreale. I paesaggi metropolitani sono marchiati da una nuova fase del capitalismo, non più sgargiante e promettente ma conformista e grigio. Il marketing si è ridotto all’osso, persino nel consumo ormai c’è ben poca scelta. Non è più uno svago ma il riflesso condizionato dei tempi andati. 
La Capitale (che non ha nome né coordinate geografiche precise) è un territorio esploso:  “L’orizzontalizzazione delle razze, la mescolanza di peculiarità etniche” hanno creato bizzarri risultati: fast food di cucina fusion, veg burger, e altri amalgami di culture disperse. Ogni quartiere assomiglia a quartieri lontani, situati addirittura in altri emisferi”
Non manca elettricità, né cibo, né acqua in questa triste apocalisse.  Ma le verdure sono liofilizzate, il mondo è sterile e spento. Stalin si chiede come mai non ci siano più arcobaleni, ogni traccia di bellezza sia stata risucchiata, così come ogni speranza per il futuro. 



“Respireremo la crisi di un’epoca che ha fatto il suo tempo”.
Tutto questo ci viene restituito attraverso frammenti, istantanee, esattamente come il corto che sta girando Stalin. Il protagonista infatti è percorso da due tensioni: una distruttrice (i suoi attacchi d’ira) e una creativa che lo porta ad esprimersi attraverso il racconto visivo del loro viaggio.  A fare da contrappunto alla “lunga parete nera” che è la vista di Bianca,  c’è l’obbiettivo della videocamera di Stalin. La narrazione è quindi estremamente visiva, ci restituisce un mosaico dei nostri tempi fatta di spezzoni incoerenti e spietati. Il romanzo procede come una puntata di Blob: sulle note di What a wonderful world, si susseguono accostamenti paradossali, immagini di giocolieri in una discoteca, scheletri che elemosinano droghe, individui che indossano maschere antigas come accessorio fashion.  Tutto danza attorno a noi come un balletto meccanico. C’è qualcosa di inspiegabilmente melanconico in questo romanzo: un movimento che simula l’organico ma non possiede lo stesso slancio, un movimento senza scopo, automatico. Come il viaggio dei due protagonisti, diretti verso il vuoto. 
La domanda che si pone Barison: cosa succede se anche i posti in cui fuggire sono finiti? 

Il romanzo s'indebolisce nella seconda parte, caratterizzata da una serie di banalizzazioni sul maledettismo giovanile. Anche lo stile risente di un’esasperata drammatizzazione, un’eccessiva sentenziosità. Per descrivere atmosfere così particolari funzionano meglio certe immagini come l’insegna al neon sgangherata della pensione che ospita i due giovani o la fontana di ghiaccio che diventa una grottesca attrazione turistica. Show, don’t tell. 
Quello che dovrebbe essere un viaggio di crescita in realtà è un’involuzione esacerbante del protagonista che, improvvisamente libero dal disturbo di cui soffre, si crogiola nel proprio ego, perde in umanità per diventare invece il grande eroe di una tragedia (senza pathos). 
I dialoghi si fanno artificiosi -  laddove nella prima parte erano essenziali e taglienti - dei giri a vuoto. Stalin e Bianca si ritrovano a vivere tra artisti di strada, pochi soldi, molti ideali e droga. L’intenzione dell’autore è quella di dipingere uno scenario d’apatia ma il talento artistico dei protagonisti più che sprecato sembra inconsistente. 
Infine Bianca. Dovrebbe essere la co-protagonista ma è un fantasma, riflesso di Stalin: irreale, piatta. L’ennesima figura femminile oggetto di sguardo e pressoché inerme. Bellissima e ininfluente. Nella narrazione, chiusa completamente nella soggettività (spesso ottusa) di Stalin, gli altri personaggi risultano opachi, inutili.  
Se si dovesse trovare una causa da imputare ai difetti di Stalin+Bianca, certamente, sarebbe la megalomania del protagonista principale. Un difetto che è possibile perdonare al romanzo di uno scrittore molto giovane (è quasi impossibile non trovare un eccesso di slancio retorico nelle prime opere, specialmente in quelle di autori ambiziosi). 
  
Una serie di campi lunghi, una storia crudele, dalla bellezza cupa che, sebbene traballi dal punto di vista narrativo (come racconto breve sarebbe stato perfetto), ci restituisce un’originale visione del mondo, suggestiva e intensa. 


Note a margine: se l’istinto non m’inganna, Barison è un lettore di DeLillo, che ritroviamo soprattutto nell’idea di Metropoli incoerente e labirintica. Mi sembra poi che gli artisti che vivono in un palazzone abbandonato siano un chiaro accenno ad Underworld